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Patto Molotov-Ribbentrop, la perenne riscrittura della storia

Patto Molotov-Ribbentrop e la manipolazione storica tra Unione Europea e Russia: la deep history dietro al conflitto mondiale

La storia è una “danza macabra” fatta di violenza, distruzione e manipolazione. Lo storico, soprattutto se si occupa della violenza del ‘900, agisce e ragiona come un mind hunter, i profiler di serial killer. Infatti: lo storico arriva sempre dopo il fatto, raccoglie le prove forensi, stila un rapporto psicologico, studia il contesto e alla luce delle sue scoperte ricostruisce l’evento.

Ma a differenza del profiler, che agisce in un ambito ristretto e relativamente apolitico, lo storico agisce nello spettro della politica. Gli imperi, che nascono dal sangue, si servono dello studio della storia per costruire un consenso, un’identità e una giustificazione, una missione, per affermarsi nel Mondo. La Russia di Putin ha compreso molto bene questa lezione.

Secondo le teorie di Alexander Dugin (net-centric-warfare) e Igor Panarin (infowarfare), gli Stati Uniti hanno vinto la Guerra Fredda grazie a una rete info-culturale, che spaziava da Radio Free Europe a Solidarnosc, capace di minare la tenuta dell’Impero Sovietico e la sua sfera di influenza, creando una contro narrazione socioeconomica più efficace a quella sovietica. Verosimilmente, il putinismo, ibrido della tradizione zarista e stalinista, ha preso a piene mani da queste teorie per costruire la mitologia della Grande Guerra Patriottica (Velikaja Otečestvennaja Vojna), principale perno ideologico del regime: si enfatizza il ruolo dell’Unione Sovietica, si minimizza il ruolo alleato, si tacciono gli errori e i crimini del regime.

Questa mitologia serve, in primo luogo, a ricolmare il vuoto emotivo-ideologico lasciato dall’Urss e dalla generazione dei veterani. In secondo luogo, è un cinico mezzo per celare l’essenza “Imperiale” della Russia di Putin. La storia è un mezzo per consolidare il regime ma, a differenza di quello che si pensa, la costante di ingegnerizzare la storia non è una caratteristica unica dei governi autoritari.

Un esempio è l’Unione Europea, il progetto geopolitico più ambizioso del Vecchio Continente. Per unificare il continente bisogna consolidare una narrazione, come la fratellanza europea, che porta quindi a definire i conflitti europei come “tragiche guerre fratricide” e che aiuti nel processo di formazione identitaria. L’Ue enfatizza il ruolo storico di determinate personalità, come Spinoza, Rousseau, Voltaire, per cementare un certo tipo di idea di “identità europea” illuminata, aperta al cambiamento e pacifica. Spesso e volentieri, come è naturale che sia, si tralasciano, o si “dimenticano”, pagine oscure che caratterizzavano e hanno dato forma al Vecchio Continente, dagli uomini come Ion Antonescu a fenomeni come il colonialismo.

Un ulteriore esempio, ancora più esplicativo di questo processo di “ingegnerizzazione della storia”, è la risoluzione «Sull’importanza della memoria europea per il futuro dell’Europa» votata il 19 settembre 2019. In questo documento si afferma «che la causa della Seconda guerra mondiale, il conflitto più devastante della storia europea, è stato il famigerato patto di non aggressione tedesco-sovietico del 23 agosto 1939, noto anche come patto Molotov-Ribbentrop, con i suoi protocolli segreti, in base al quale due regimi totalitari con l’obiettivo di conquistare il mondo hanno diviso l’Europa in due sfere di influenza». La risoluzione, che secondo il defunto David Sassoli serviva a non far dimenticare le tragedie del passato, fu velocemente etichettata come una palese reinterpretazione, in chiave antirussa, delle vicende del secolo scorso.

La manipolazione della storia è sempre inevitabile nelle collettività umane e se usata incautamente può portare a immani tragedie, come la nascita di movimenti politici revanscisti, o errori di valutazione tragici, come la sottovalutazione dell’eredità coloniale in Africa. Comprendere la storia profonda, e le motivazioni, dietro il Patto Molotov-Ribbentrop è un passaggio necessario a dare giustizia alle vittime della Seconda Guerra Mondiale e dei totalitarismi europei.

La genesi di un conflitto

Il patto Molotov-Ribbentrop era un trattato di non aggressione, della durata di dieci anni (con rinnovo automatico di altri cinque se non fosse stato sciolto), con una serie di clausole commerciali sulla fornitura di materie prime, fondamentali per lo sforzo bellico nazista, tra l’Urss di Stalin e la Germania di Hitler. La parte più interessante del patto era costituita dalle clausole segrete sulla spartizione dell’Europa orientale: divisione della Polonia sulla linea dei fiumi Narew, Vistola e San e controllo sovietico sugli Stati baltici, la Bessarabia e le regioni contese con la Finlandia. Ma, a differenza di quello che pensano certi politici o giornalisti occidentali, la guerra non scoppiò a causa di questo trattato. Tanto meno, nessuno delle due parti era intenzionata a mantenersi entro le sfere d’influenze prefissate.

Stalin e Joachim Ribbentrop| da Wikimedia Common

Per comprendere la genesi di questo evento storico bisogna ricercare la “deep history” antecedente agli eventi. La situazione internazionale era già compromessa da molti decenni. Il trattato di Versailles aveva partorito un centro europeo orfano dell’Impero asburgico, estremamente fragile e con numerose zone di rottura tra le varie etnie che, spesso e volentieri, erano costrette a convivere tra di loro: la Polonia, rinata dopo secoli di dominio zarista e asburgico, voleva espandersi per riappropriarsi dei vecchi territori del Commonwealth polacco-lituano; l’Ungheria, una delle nazioni più penalizzate dalla dissoluzione imperiale, voleva restaurare i confini della “Grande Ungheria”; l’Albania e la Bulgaria erano nazioni deboli e succubi delle potenze più forti; Jugoslavia e Romania erano delle matrioske etniche pronte a esplodere; l’Austria e la Cecoslovacchia, che aveva forti minoranze tedesche nei Sudeti, volevano riunirsi alla “Großdeutschland“, la Grande Germania. 

Alla Germania, oltre ad aver perso le colonie e territori che appartenevano alla Prussia storica, veniva attribuita la vergogna di aver scatenato il conflitto. La società tedesca, forgiata da anni di militarismo e fedeltà agli Hohenzollern, era rimasta traumatizzata dalla sconfitta e dall’abdicazione del Kaiser. Questi due traumi vennero metabolizzati nel mito di Ludendorff della Dolchstoßlegende, la pugnalata alle spalle: la Germania non ha mai perso sul campo di battaglia, sono stati i politici e i sindacalisti traditori, composti da ebrei e bolscevichi, che hanno permesso la resa.

Mappa politica dell’Europa nel 1919 | da Wikimedia Commons

La debole Repubblica di Weimar, retta nei primi anni dal governo militare di Ludendorff e con una situazione economica disastrata, era travagliata da una vera e propria guerra civile tra spartachisti, definiti come banditen (banditi), e forze di estrema destra coadiuvate dai freikorps, un insieme di unità paramilitari inizialmente agli ordini del governo tedesco che avevano come obiettivo “die Vernichtung der Banden” (distruggere i banditi) e eliminare i Vaterlandsverräter (traditori della patria). Molti dei loro componenti affluiranno successivamente nelle Sturmabteilung (SA) di Ernst Röhm, “progenitori” delle SS di Himmler.

Tra le rovine impero zarista, si combatteva una terrificante guerra civile tra una miriade di attori spietati, spregiudicati e, in alcuni casi, folli. L’intervento alleato in favore dei bianchi, la macro-fazione eterogena che sosteneva la riunificazione dell’Impero zarista sotto la dinastia Romanov, non fece che acuire la percezione di accerchiamento dei bolscevichi, oltre a creare una dirigenza sovietica diffidente dalle mosse alleate.

In Estremo Oriente, il Giappone Taisho-Showa era retto da un governo militare diviso tra due fazioni con visioni geopolitiche contrapposte: l’Esercito, fautore dell’Hokushin-ron (la strada settentrionale), voleva  concentrarsi sul continente per conquistare le vaste terre siberiane, e la Marina, che proponeva la Nanshin-ron, la “strada meridionale” per conquistare le ricche risorse del sud-est asiatico.

Queste due visioni geopolitiche, pur antagoniste, condividevano la percezione di un Giappone accerchiato da barbari occidentali (nanban) e subumani (cinesi). L’economia giapponese, prima e dopo il Crollo del ’29, era in perenne crisi a causa della fame di risorse e dalla mancanza di mercati liberi per i prodotti giapponesi. La paura di vedere il Sol Levante sottomesso convinse la dirigenza nipponica a imboccare la strada per la guerra e il militarismo.

L’Italia fascista, che fino al ’35-36 aveva condotto una politica estera filoinglese (e in piccola parte francese), tanto da sbarrare la strada ad Hitler nel ‘34 per un prematuro Anschluss dell’Austria, aveva, come il Giappone, sviluppato un desiderio di espandere la sua proiezione mediterranea ai danni del Commonwealth, alimentato dal mito nazionale della “Vittoria Mutilata”.

La guerra civile spagnola, usata come proxy war da sovietici e tedeschi per testare le proprie capacità belliche (i bombardieri sovietici riuscirono a danneggiare la corazzata Deutschland stanziata a Ibiza), era il preludio per il successivo atto della “danza macabra”.

La situazione internazionale era già cronicamente dissestata, mancava solo l’elemento scatenante. Il famigerato Patto fu l’ultimo anello di una catena mortale forgiata anni prima. Non è un caso che alcuni storici abbiano iniziato un processo di retrodatazione del secondo conflitto mondiale, con una scuola europea parla di una guerra trentennale(’17-45) e una scuola asiatica, caratterizzata da uno sguardo più globale e meno eurocentrico, che segna la data di inizio al 1931, con l’invasione nipponica della Manciuria.

Le “colpe” delle democrazie

Come già detto all’inizio, la manipolazione storica è una costante di tutte le società, anche delle democrazie liberali. La Commissione, forse per “ingenuità”, dà un colpo di spugna alle colpe delle democrazie occidentali, che in questo tragico racconto hanno svolto un ruolo fondamentale.

La situazione geopolitica era già compromessa, l’appeasement inglese, la politica scellerata di accontentare i desideri di Hitler per mantenere una “pace” fasulla,  fu il fattore che spianò, a tutti gli effetti, la strada verso la guerra. Non era un incidente, o semplice ignoranza, ma un pensiero condiviso.  Le democrazie occidentali, Francia, Inghilterra e Stati Uniti in testa, non erano esattamente dei campioni di “democrazia e libertà” in senso contemporaneo: l’economia di queste nazioni si reggevano su vasti imperi coloniali dove si praticava con molta disinvoltura l’ingegneria etnica (vedasi gli Hutu e i Tutsi), mentre il razzismo, il segregazionismo e l’antisemitismo erano pratiche consuetudinarie nella politica sociale, tanto che i tedeschi si ispirarono alle leggi segregazioniste americane (giudicate dagli stessi nazisti come “troppo severe”) per sviluppare il corpus giuridico delle leggi di Norimberga.

Molti politici, tra cui De Gaulle, Wiston Churchill e componenti della nobiltà inglese, da Lord Londonderry alla famiglia reale, simpatizzavano per i regimi, le politiche e le rivendicazioni di Berlino e Roma, perché rappresentavano un argine contro il comunismo e l’Unione Sovietica. La Polonia, retta dal governo autoritario di  Ignacy Mościcki e dal colonello Josef Beck era essa stessa partecipe di questi giochi di potere: durante la spartizione della Cecoslovacchia aveva ottenuto la regione di Teschen e aveva preso contatto con il regime nazista per una possibile espansione a est della Polonia. I discorsi di Hitler, nella prima metà del ’39, parlavano della “sincera” amicizia con la Polonia contro il nemico bolscevico (russo).

Recentemente, nei dibatti storici e politici, si è arrivati a valorizzare la posizione occidentale nella conferenza di Monaco, dipingendo quella grottesca resa come una “raffinata strategia” del primo ministro Chamberlain per guadagnare tempo per un riarmo alleato. Purtroppo, Chamberlain rimase impreparato alla sua stessa strategia. La conferenza, a differenza di questa volgare interpretazione, voleva mantenere una pace compromessa costruita dalle ceneri di Versailles, non per guadagnare tempo per un riarmo completo e costoso.

L’Inghilterra e la Francia erano state colpite duramente dalla crisi del ’29 e il ricordo degli orrori del primo conflitto era ancora vivo. Un riarmo, estremamente dispendioso a livello economico e umano, avrebbe rappresentato un suicidio politico per i governi in carica.  Non a caso Churchill, tra i pochi fautori del contrasto alle pretese di Hitler, anche con l’aiuto sovietico (i sovietici furono esclusi dal vertice e furono gli unici ad essere contrari allo smembramento della Cecoslovacchia), rimproverò la scelta di Chamberlain: «Potevano scegliere fra il disonore e la guerra. Hanno scelto il disonore e avranno la guerra».

La “Pace dei nostri tempi” di Neville Chamberlain, 30 settembre 1938 | da Wikimedia Commons

Questa interpretazione storica si basa su un presupposto falso, che sostiene che l’esercito tedesco fosse in grado di combattere già nel ’38. Come scrisse Antony Beevor, uno dei massimi storici della Seconda Guerra Mondiale, nel 1938 mancava la volontà di combattere. I servizi anglo-francesi, nel contesto della paura per un nuovo conflitto, sopravvalutarono una forza militare ancora in fase di sviluppo. Le operazioni di annessione dell’Austria e della Cecoslovacchia nel ’38, e la campagna in Polonia nel 1939, furono condotte da un esercito impreparato, semi-indisciplinato e con mezzi di scarsa qualità.

L’esercito tedesco nel ’38 contava circa un milione di uomini, di cui 560mila nelle forze regolari e 400mila tra riservisti (reservisten) di prima e seconda classe. Le forze di riserva potevano avere poco più di tre mesi di addestramento e disponevano di armamenti obsoleti. Queste forze di riserva, secondo i piani per una possibile invasione della Cecoslovacchia (Caso verde, Fall Grün), non potevano essere mobilitate per motivi logistici e industriali. A metà ottobre del 1938, Goering, capo della Luftwaffe, disse in una conferenza: «Signori, le nostre finanze sono in un pessimo stato». Non c’erano riserve sufficienti di valuta estera per resistere a un conflitto prolungato. La Reichsbank inviò un memorandum a Hitler sulla situazione economica del paese «La Reichsbank non ha più riserve d’oro o di valuta estera. Il saldo del commercio estero si è bruscamente deteriorato….Le riserve ottenute dall’Austria incorporata…sono state esaurite. »

Le riserve di munizioni erano in pessime condizioni al punto che, nel dicembre del 1938, l’Alto Comando dovette adottare drastiche riduzioni di acciaio e materie prime nella produzione di munizioni. Durante l’Anschluss, l’annessione dell’Austria, buona parte dei mezzi motorizzati si guastano prima di entrare a Vienna.

Durante la crisi, le forze tedesche contavano circa 45 divisioni, di cui 38 di fanteria (di cui quattro erano motorizzate alle dipendenze delle SS), tre corazzate, tre di montagna e una divisione leggera. Inoltre, disponevano di una brigata di cavalleria stanziata nella Prussia orientale (totalmente inutile in caso di conflitto) e all’incirca una decina di compagnie di truppe di frontiera (grenzwache) sprovviste di equipaggiamento.

I carri armati tedeschi erano prodotti molto inferiori in confronto ai modelli anglo-francesi, in una campagna militare contro la Cecoslovacchia avrebbero avuto difficoltà a muoversi in un terreno difficile come quello dell’Europa centrale. I Panzer I e i Panzer II (sebbene ci fossero alcuni modelli di Panzer III, erano così pochi da avere un impatto insignificante) erano estremamente più leggeri dei carri alleati come il francese Char B1 o i primi tank cruiser inglesi.

Tuttavia, la vera forza dei veicoli tedeschi stava nelle comunicazioni e nella concentrazione delle forze. I tedeschi furono tra i primi ad implementare le comunicazioni radio tra carri e a formare le Panzer-Division. I francesi, al contrario, concepivano i carri come supporto mobile per la fanteria e li disperdevano in piccoli reggimenti.  

La famigerata Luftwaffe, il “big blind” della politica pokerista di Hitler, era una tigre di carta: i piloti che potevano essere schierati durante la crisi di Monaco erano 1351. Per dare un esempio delle statistiche:  dei 300 piloti richiesti per gli Stuka solo 80 erano disponibili. I piloti della Luftwaffe, in confronto ai cechi, avevano meno esperienza di volo. I cechi potevano contare su 1200-1600 aerei, tra cui, secondo un rapporto del 9 settembre 1938, 650 dispositivi sovietici (che probabilmente erano anche meno), piloti ben addestrati e un vasto sistema antiaereo. Inoltre, in caso di conflitto, la Luftwaffe si sarebbe dovuta occupare sia del supporto di terra sia della difesa dal Reich da possibili sortite anglofrancesi e sovietiche.

Anche la geografia  giocava dalla parte di Praga: le fortificazioni dei Sudeti, munite di bunker, ostacoli, pezzi d’artiglieria e campi minati, avrebbero potuto fermare un attacco di terra tedesco, costringendo Berlino a una logorante guerra di posizione. L’esercito cecoslovacco poteva muoversi molto velocemente grazie al sistema ferroviario e alle dimensioni ridotte del proprio paese. Inoltre, l’esercito di Praga, che aveva i materiali per sostenere una mobilitazione, poteva schierare 34 divisioni di fanteria (tra regolari e riservisti), quattro divisioni mobili su modello francese e ben 138 battaglioni di uomini (tra guardie di frontiera e guardie ferroviarie) già stanziati nelle fortificazioni. Questi battaglioni, a differenza dei grenzwache, erano ben equipaggiati.

I soldati tedeschi, inoltre, non erano l’esempio lampante di soldato ariano disciplinato e ligio al dovere. Stando ai rapporti tedeschi della campagna di Polonia era molto frequente che i soldati si lasciassero prendere dal panico o dalla cieca ferocia nel reprimere la popolazione, erano molto frequenti gli stupri, i pestaggi selvaggi o la mancanza di disciplina tra le fila. Era diffusa la paranoia dei franchi tiratori, chiamata Freischärlerpsychose, e la Heckenschützenpsychose, l’ossessione degli spari dai cespugli. È plausibile, stando a questi eventi, che l’esercito tedesco, in caso di invasione della Cecoslovacchia, non si sarebbe comportato in maniera differente .

Alla luce di queste dinamiche, non è presuntuoso affermare che se i governi Alleati avessero adottato una politica più aggressiva contro Hitler, si sarebbe evitato un bagno di sangue su vasta scala. Chamberlain, un uomo “spezzato” dall’esperienze della Prima Guerra Mondiale e visceralmente anticomunista, era l’uomo sbagliato al momento sbagliato ed era genuinamente convinto, come il presidente francese Daladier, di fermare una nuova guerra in Europa. Nondimeno, non è l’unico colpevole, poiché le classi dirigenti di tutta Europa temevano e ammiravano il Terzo Reich.

I vertici militari, che rispecchiavano questa politica, non avevano alcuna intenzione di rischiare un’altra “tempesta di acciaio” che avrebbe comportato la perdita di milioni di vite umane. L’annessione della Cecoslovacchia, tra le riserve d’oro e  le industrie della Skoda, forni un sollievo all’economia del Reich e alla Wermacht. Inoltre, diede la spinta psicologica a Hitler di “alzare l’asticella” negli azzardi politici.

La pace armata russo-tedesca

L’Unione Sovietica di Stalin, nel 1939, non era in grado di attuare una guerra preventiva contro la Germania nazista, tanto meno espandersi nel resto del continente. Era da poco iniziato il terzo piano quinquennale (1938-1942) e l’economia non avrebbe retto una mobilitazione repentina. Le purghe avevano devastato il quadro ufficiali e nel ’39 l’Armata Rossa era condotta da ottusi stalinisti o ufficiali timorosi lasciati allo sbaraglio, Zhukov e Rokossovsky erano delle eccezioni.

Gli effetti delle Purghe si concretizzarono nella campagna polacca e finlandese. Quando la Germania di Hitler iniziò a guadagnare forze, tramite l’appeasement alleato, Stalin iniziò a temere il peggio. L’Unione Sovietica, conscia delle proprie debolezze, si mise in contatto con le potenze occidentali per creare un cordone sanitario intorno alla Germania. Non era filantropia, o amore per la pace, era una semplice constatazione di fatto: l’Urss non poteva vincere senza alleati.

Ma le democrazie occidentali, in particolare gli inglesi, hanno sempre diffidato dalle proposte dell’Unione Sovietica, perché la consideravano come una emanazione della Rivoluzione d’Ottobre di Lenin. Non capirono la politica del “Socialismo in un solo paese” e la “restaurazione zarista” sotto Stalin. Questo comportamento miope porterà a rifiutare completamente le prime proposte sovietiche: il diplomatico Maksim Litvinov fece una campagna diplomatica per la sicurezza collettiva, il commissario della difesa Kliment Vorosilov, all’inizio di agosto del 1939, discusse un piano di coordinazione con i governi anglofrancesi in caso di un attacco tedesco contro la Polonia. Tutte queste proposte furono rifiutate.

I continui rifiuti degli alleati portarono Stalin ad accogliere la proposta tedesca di un patto di non aggressione. Gli stessi sovietici rimasero sorpresi dalla velocità e dalla buona volontà dei nazisti. Il 20 agosto Hitler mandò un messaggio a Stalin per chiedere di ricevere il ministro degli esteri Ribbentrop, il 23 agosto le rispettive parti firmarono il patto. Il mondo fu scosso da questo evento.

Il patto non era una alleanza con la Germania di Hitler, né esplicita né implicita, ed entrambi sapevano dell’entità temporanea del tratto. Stalin aveva, probabilmente, letto il Mein Kampf. I rapporti tra le due potenze non erano amichevoli e restarono sempre caratterizzati da paranoia e ipocrisia. I tedeschi iniziarono a infiltrare spie e guerriglieri per fomentare le rivolte antisovietiche e a preparare il terreno per la Wermacht. Il servizio di intelligence tedesco stava già lavorando da molto tempo nella valutazione delle forze sovietiche.

Operazione Barbarossa | da United States Holocaust Memorial

La Stavka, su ordine di Stalin, iniziò, dal 1940, a organizzare le difese in profondità. Per evitare incidenti di confine che potessero giustificare un attacco si decise di spostare le unità di frontiera dell’Nkvd  a circa 80-90 chilometri dal confine. I piani sovietici mantennero, anche dopo il patto, un focus difensivo contro Germania, Giappone e, fino al giugno del 1941, anglofrancese (gli alleati avevano pianificato l’operazione Pike, un piano di bombardamento e occupazione di Baku e della penisola di Kola).

Questo atteggiamento prudente e difensivo smentisce anche la teoria dell’attacco preventivo sovietico, che si basa su una verità storpiata successivamente da Vladimir Rezun, ex ufficiale del controspionaggio e autore di romanzi fantapolitici: Zhukov, il 15 maggio del ’41, scrisse un rapporto a Stalin dove proponeva un attacco preventivo su tutto il fronte occidentale utilizzando 152 divisioni. Ma il piano non venne mai preso in considerazione da Stalin, era un piano troppo pericoloso e le forze erano già in assetto difensivo o gravemente dissestate dalle purghe.

La guerra di annientamento

Ma arriviamo al problema più grave di questa risoluzione: la parificazione della dicotomia tra nazismo e comunismo, e di conseguenza dello stalinismo e delle intenzioni di Stalin. Questa visione semplicistica alimenta la diceria di un presunto asse “Mosca-Berlino” che si voleva spartire il mondo. Questo ragionamento semplicistico non tiene conto né dei fattori geopolitici né del retroterra politico-culturale.

Stalinismo e nazismo sono imparagonabili e incompatibili su molti punti di vista. Le ideologie di base, comunismo e nazismo, hanno obiettivi differenti e una visione di mondo, e dell’umanità, diametralmente opposti: nel primo caso, gli uomini sono formalmente e materialmente eguali e vanno liberati dall’oppressione capitalista tramite una rivoluzione mondiale; il motore della storia, e delle ideologie, sono le forze economiche e la lotta di classe.

Nel nazismo gli uomini hanno un valore relativo, la razza è il motore della storia, i superuomini trionfano sulle civiltà inferiori e viceversa. L’obiettivo finale del nazismo è il predominio di un Reich militarista sul continente euroasiatico composta da una comunità (volksgemeinshafth) priva di elementi disformi come ebrei, malati di mente, omosessuali e slavi.

Le società sovietica e naziste erano estremamente differenti anche a livello di ingegneria sociale. Nel caso stalinista, l’ingegneria sovietica si basava sulla classe di appartenenza (operai, militari, dirigenti) dove esisteva la possibilità di una scalata sociale e di riabilitazione, il gruppo etnico e di genere non era, almeno sulla carta, un elemento di discriminazione. Nel caso nazista l’ascesa sociale dipende dalla razza di appartenenza: i gruppi “inferiori” sono destinati a rimanere tali e vanno sterminati o schiavizzati, solo pochi eletti possono essere ri-assimilati nel  volksgemeinshafth, gli ariani sono gli unici veri esseri umani che hanno diritto all’esistenza.

Ebrei ucraini catturati dalla Einsatzgruppe. Lubny, Unione Sovietica, 16 ottobre 1941| da United States Holocaust Memorial

L’ideologia hitleriana accentuò una dottrina geopolitica peculiare: secondo Hitler, l’Occidente, la parte più industrializzata del mondo, stava subendo un forte declino culturale (razziale) ed economico. La Germania, erede dei cavalieri teutoni, dei Cesari di Roma, e con un “popolo senza terra”(Volk ohne Raum), è una zona di frontiera tra civiltà e caos. Le nazioni inferiori, che hanno economie arretrare, commerciano il cibo e prodotti grezzi con prodotti industriali e know-how dalle civiltà “superiori”.

Questa perdita di ricchezza e conoscenza dà la possibilità alle nazioni inferiori di raggiungere, e di superare, le civiltà superiori. Queste “sotto-nazioni”, situate soprattutto nell’Est europeo, sono, nella visione del nazismo, governate dai giudei che partoriscono ideologie aberranti come il bolscevismo. Per tanto, le razze inferiori dell’Est sono geneticamente predisposte a portare questo morbo. L’Unione Sovietica di Stalin calza a pennello in questo ragionamento. Di conseguenza, uno dei motivi scatenanti del conflitto, fu la volontà di Hitler di proteggere l’Occidente dalle orde asiatiche.

Non ci sarebbe stata nessuna alleanza tra Urss e Reich nazista. Tale presunta affinità tra i due regimi e smentita dall’impegno “coloniale” dei tedeschi in Europa dell’Est. Qui i corpi di polizia, da quella militare a quelle dei collaborazionisti (Schutzmannschaft), erano coordinati sotto l’ispettorato della polizia coloniale. Le terminologie usate nei documenti parlano molto chiaramente della natura coloniale della campagna militare: pulizia (Säuberung), distruzione (Vernichtung), liquidato (liquidiert).

I nazisti avevano in mente solo un unico obiettivo: condurre una gloriosa crociata ideologica di Vernichtungskrieg (guerra di annientamento) e conquistare il Lebensraum (spazio vitale), strappandolo agli Untermenschen che lo abitavano. Nessuna pace era negoziabile con queste entità “non-umane”. Secondo la logica nazista, era possibile ragionare con uomini appartenenti allo stesso ceppo razziale, ma non con quelli che spesso erano considerati alla stregua di animali selvaggi.  

La storia come strumento politico

Nietzsche, all’inizio del XX secolo, identificò la storia come una “patologia” che toglie all’uomo la libertà: alcuni abbelliscono il passato, altri la venerano, altri ancora la ignorano. Nel XXI secolo, alla soglia della Singolarità, si potrebbe aggiungere la categoria degli “uomini di silicio” che manipolano la storia dalla radice.

Questa macabra cavalcata nella deep history del Patto Molotov-Ribbentrop vuole dimostrare una cosa: un evento storico, anche se profondamento sviscerato nei documenti, può subire un eterno processo di reinterpretazione politica, e di conseguenza storico, per costruire o disfare dei miti. Nel caso dell’Unione Europea, il trattato tra Urss e Germania nazista serve per nascondere le colpe delle nazioni occidentali, dando l’immagina artefatta di una tragedia voluta da altre nazioni più potenti, mentre l’inerme Europa ne subiva le conseguenze.

Dall’altra parte dello schieramento, nella storiografia russa, si nega la volontà sovietica di espandere la propria sfera d’influenza verso occidente. Un fatto ampiamente smentito dalle azioni di Stalin e dalla scoperta delle clausole segrete dopo il ’45.

Inoltre, non bisogna mai sottovalutare il potere delle idee politiche. I fenomeni politici “estremi”, come il nazismo e il fascismo sono camaleontici e possono adattarsi al contesto locale: ieri si sfruttavano i movimenti di massa, mentre oggi, nella società liquida, potrebbero trovare spazio nei contesti social. Pensieri generalmente considerati aberranti, come la pulizia etnica, lo sterminio o l’ingegnerizzazione della società, possono diventare politiche accettabili e “logiche” se mascherate dietro parole diverse.

Bibliografia

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  • Lopez, Juan. Aubin, Nicolas. Bernard, Vincent. Guillerat, Nicolas, Infografica della Seconda guerra mondiale. Ediz. Illustrata. Milano: L’ippocampo. Settembre 2019.
  • Blood, W. Philip, Hitler’s Bandit Hunters The SS and the Nazi occupation of Europe. Stati Uniti: Potomac Books. 2006.
  • Evans, J. Richard, La nascita del Terzo Reich. Milano: Mondadori. 2003.

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