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Perché Dante ha ancora qualcosa da dirci, oggi.

L’esilio come svolta esistenziale e letteraria

Come sottolineava Mario Luzi, anch’egli poeta fiorentino, fu proprio l’esperienza dell’esilio la forza rivelatrice che ispirò Dante nella stesura della Commedìa.

Come noto infatti, il poeta, esponente della fazione dei Guelfi Bianchi (più vicini all’imperatore), al momento della condanna si trovava a Roma, per trattare con Papa Bonifacio VIII come ambasciatore della famiglia dei Cercieschi.

Dante, da sempre impegnato attivamente in politica, era stato costretto negli anni precedenti a prendere decisioni gravi, che visse con dolore e che ne segneranno fatalmente il destino. Oltre a decretare assieme ai suoi la cacciata dei Guelfi Neri da Firenze, radunati attorno alla famiglia dei Donati, dovrà anche condannare all’esilio il suo amico di sempre, nonché esponente come lui della corrente del Dolce Stil Novo, Guido Cavalcanti.

Proprio durante l’alloggio a Roma, le trame di Bonifacio VIII porteranno alla presa della città da parte di Carlo VIII di Valois, al rimpatrio in massa  dei Neri e alla promulgazione di condanne a morte per i Bianchi dentro e fuori Firenze. Dante, accusato di baratteria, di prendere tangenti (allora accusa gravissima) commuterà la pena dell’esilio e a Firenze non farà più ritorno. Anche quando anni dopo i Bianchi cercheranno l’appoggio dei ghibellini per riprendere il potere in patria, egli rifiuterà di lasciarsi coinvolgere, per non essere responsabile dello spargimento di ulteriore sangue fraterno, di portare ulteriori divisioni tra il popolo fiorentino.

Una seconda possibilità di ritorno, come emerge dalla sua corrispondenza epistolare, la avrà quando i Guelfi Neri proporranno l’amnistia per gli esuli di parte bianca, a patto del pagamento di una ammenda e di una cerimonia di pubblica penitenza. Dante, pur incitato da amici e parenti, rifiuta categoricamente di essere trattato, lui “ la cui innocenza è palese a tutti”, lui che è un uomo di lettere, alla stregua di un delinquente qualsiasi.

Questa lettera contribuì a diffondere l’immagine di un Dante irato e sdegnato con la propria Firenze: forse potremmo rivedere in lui l’immagine di quegli italiani, che ancora oggi sono costretti a fronteggiarsi con una realtà ostile e che con dolore sono costretti ad abbandonare il nostro Paese, ma che conservano sempre intatto nel cuore di “ritrovare la via della patria”. In questa direzione possono essere lette le dichiarazioni di Giancarlo Giorgetti, allora sottosegretario di Stato, l’11 dicembre 2018: “Lo Stato deve garantire un sistema d’istruzione e di avviamento al lavoro, per evitare che i ragazzi portino ricchezza all’estero”. Una ricchezza che è in primo luogo culturale, di qualsiasi disciplina si tratti.

Ritornando a Dante, egli era convinto che, grazie alle sue abilità artistiche, non avrebbe avuto difficoltà nel trovare un impiego stabile ed anche redditizio: le cose, tuttavia, andarono in maniera un po’ diversa, come racconta bene la storica medioevale Chiara Mercuri nel suo libro “Dante. Una vita in esilio”, edito da Laterza.

Come emerge dal Canto XVII del Paradiso, che riporta la profezia di Cacciaguida, trisavolo di Dante, il fiorentino non riuscirà mai a rimarginare la ferita del distacco da Firenze, portando sempre con sé il dolore dell’emigrante: “Tu proverai sì come sa di sale lo pane altrui, e come è duro calle lo scendere e ‘l salir per l’altrui scale”. La prima città che incontra nel suo viaggio è Verona, in cui trova ad accoglierlo Can Grande della Scala.

In lui, vicario imperiale e condottiero valoroso, Dante individuerà quella figura, il “veltro” evocato da Virgilio nel I canto dell’Inferno,   destinato a cacciare la lupa-avarizia dall’Italia e a ristabilire la giustizia, ponendo fine alle discordie in Italia. A lui viene dedicata in un’Epistola, l’intera Comedìa e viene citato anche nel Paradiso da Cacciaguida, segno del grande rapporto di amicizia che li legava e della gratitudine di Dante nei suoi confronti. La Comedìa sarà infatti scritta non negli anni del soggiorno veronese, ma tra 1307 e 1321, nel periodo trascorso tra Lunigiana e Ravenna.

La consapevolezza di una identità culturale comune

Proprio negli anni post veronesi, che lo portarono prima in Lunigiana ed infine a Ravenna, in cui avrà luogo la sua morte, Dante inizia a maturare quell’idea d’Italia che già dal punto di vista linguistico aveva fissato nel “De Vulgari Eloquentia”.  In quelle pagine Dante aveva messo in evidenza come anche la lingua italiana fosse capace di alta poesia e speculazioni filosofiche, al pari del latino, suo “ fratello maggiore” ed all’epoca lingua dominante nelle corti di tutta Europa (in modo analogo all’inglese oggi).Queste sue riflessioni  influenzeranno tutti i pensatori successivi, da Boccaccio a Petrarca sino ad arrivare al Rinascimento.

Nell’Italia inoltre, Dante vede caratteristiche comuni dal punto di vista culturale che, già presenti all’epoca dei Romani, non si sono sbiadite nel tempo; anzi, anche grazie all’influsso dei popoli che l’hanno attraversata (dai Longobardi, ai Franchi, ai tedeschi, fino agli arabi e ai normanni nel Meridione), nasce una lingua comune che unisce i rimatori da Bologna, a Firenze, fino a Palermo: il volgare.

La prima espressione poetica italiana in volgare si ebbe proprio alla corte di Federico II, con  intellettuali del calibro di Pier delle Vigne, Rinaldo d’Aquino,  Jacopo da Lentini. La loro eredità fu raccolta dai poeti fiorentini, che continuarono ad occuparsi d’amore: nasce il Dolce Stil Novo, inaugurato dal giurista bolognese Guinizelli, che trova in Calvalcanti e nello stesso Dante i principali punti di riferimento.

L’ardore politico e il sogno di una Italia unita e protagonista

A Firenze, tuttavia, la situazione sociale e politica porta i letterati ad affrontare sempre più temi di carattere sociale e politico: Cavalcanti e Dante, come abbiamo già anticipato, si impegnano attivamente in politica.

Come intellettuale, sia nel “De Monarchia” che nella Commedia, Dante critica aspramente le mire espansionistiche di Bonifacio VIII, il quale vuole ampliare il proprio bacino di influenza sulla Toscana con l’aiuto della Francia.

Il centro della sua critica riguarda la contaminazione col potere temporale, che ha portato il papato alla corruzione morale, perdendo di vista il suo “gregge di fedeli”. Nel XIX Canto dell’Inferno Nicolò III, altro papa famoso per l’avidità di denaro, predirà la condanna che attende anche chi, come Bonifacio VIII, ha perseguito quella strada. Dante ripone in Arrigo VII la speranza di una restaurazione dell’Impero, che abbia di nuovo, come in origine, Roma come suo fulcro.

L’uomo infatti ha per Dante due fini: fine temporale e fine spirituale.  Il primo può essere raggiunto in una società retta dal potere illuminato dell’imperatore e consiste, come già Aristotele e D’Aquino avevano osservato, nello sviluppo delle facoltà intellettive tramite l’esercizio delle quattro virtù cardinali (prudenza, giustizia, temperanza, fortezza).  Tale crescita umana può avvenire appieno solo in tempo di pace. Il secondo fine è la salvezza dell’anima: di quest’ultimo si deve occupare invece il papa, come guida della Chiesa. Nessuna contaminazione deve avvenire tra le due sfere (i due “soli”): ognuno deve attendere alla funzione che gli è propria.

Sono però i sesti canti di tutte e tre le cantiche i più significativi da punto di vista della denuncia politica. Nel primo si descrive Firenze, nascente potenza economica e finanziaria, di cui Dante sottolinea con sdegno la corruzione, che condanna senza appello. Questo aspetto potrebbe fornire spunti di riflessione all’odierno lettore: quando la moneta da mezzo si trasforma in fine si aprono contraddizioni insanabili, che sono oggi le contraddizioni del capitalismo finanziario, storture che in questo periodo in particolare sono sotto gli occhi di tutti. “Pluto il gran nemico” diventa il valore più importante, più della giustizia e della salute, oltre ogni misura ed ogni ritegno.

Io li rispuosi: «Ciacco, il tuo affanno

mi pesa sì, ch’a lagrimar mi ’nvita;

ma dimmi, se tu sai, a che verranno                             60

li cittadin de la città partita;

s’alcun v’è giusto; e dimmi la cagione

per che l’ha tanta discordia assalita».                          63

E quelli a me: «Dopo lunga tencione

verranno al sangue, e la parte selvaggia

caccerà l’altra con molta offensione.                             66

Poi appresso convien che questa caggia

infra tre soli, e che l’altra sormonti

con la forza di tal che testé piaggia.                               69

Alte terrà lungo tempo le fronti,

tenendo l’altra sotto gravi pesi,

come che di ciò pianga o che n’aonti.                           72

Giusti son due, e non vi sono intesi;

superbia, invidia e avarizia sono

le tre faville c’hanno i cuori accesi».

Il VI canto del Purgatorio è stato storicamente interpretato come anticipatore delle istanze unitarie, e in questo senso ha ispirato anche i versi dei più grandi poeti successivi da Petrarca ad eroi del Risorgimento come Manzoni.

Le sue parole sono però più che mai attuali per una nazione che porta ancora i segni della guerra civile di 70 anni fa, che fatica a trovare un’unità che sia non solo formale ma anche sostanziale, che remi insomma nella stessa direzione.

“Ahi serva Italia, di dolore ostello,

nave sanza nocchiere in gran tempesta,

non donna di provincie, ma bordello!”

E’ un invettiva rivolta a chi, come Alberto d’Austria, ha abbandonato “lo giardin de lo imperio” al suo destino.

Dante riteneva che le peculiarità della penisola italiana (posizione strategica e fertilità del territorio) fossero segni del ruolo centrale che Dio aveva assegnato a Roma nella Storia. I Latini furono infatti capaci di conquistare tutto il mondo allora conosciuto, unendolo sotto un unico sigillo imperiale, un’unica lingua ed un’unica pace; proprio  sotto il loro dominio Dio scelse di far nascere suo Figlio.

Dante sottolinea infatti come l’Impero romano fu voluto da Dio per dare stabilità al mondo e unificare i popoli in un’unica legge, così da preparare l’umanità alla nascita di Gesù. Roma diventò poi, già dai tempi dell’Apostolo Pietro, il centro della cristianità, e fu proprio l’unità politica di un impero così vasto a garantire la diffusione del messaggio di Cristo. L’Impero, nella parte finale della propria parabola si convertirà ufficialmente al Cristianesimo, per poi dissolversi e tentare di rinascere come Sacro Romano Impero. E’ da qui che, secondo Dante, l’Imperatore dovrebbe ripartire, assolvendo il suo compito di portare la pace e la giustizia nel mondo cristiano.

Il primo imperatore medioevale che era riuscito a riportare la sede a Roma, vagheggiando una “renovatio imperii”, era stato Ottone III. Stabilitosi in Italia, vide però il suo progetto naufragare. Tentativi successivi ma altrettanto effimeri furono quelli di Federico I, molto stimato da Dante, e del nipote Federico II, cui Dante riconosce molti meriti (tra cui l’aver contribuito alla promozione della prima lingua volgare, “il siciliano illustre”), ma che collocherà nell’inferno tra gli eretici per la sua ostilità eccessiva verso il pontefice.

Questo ideale, trattato ampiamente nel “De Monarchia”, risuona anche nell’intervento di Giustiniano nel canto VI del Paradiso, in cui l’imperatore romano d’Oriente ripercorre (28-96) le fasi essenziali della storia di Roma e dell’Impero attraverso il percorso dell’aquila, suo simbolo. Il suo racconto spazia dalle origini monarchiche di Roma al periodo repubblicano e le sue glorie, per poi arrivare a Giulio Cesare, da Dante considerati il primo imperatore, Augusto, Tiberio, Tito e, infine a Carlo Magno, che si fece erede di questa tradizione. Giustiniano non risparmia una dura requisitoria contro Guelfi e Ghibellini: i primi, colpevoli  di aver tradito il segno dell’aquila imperiale con i gigli gialli della monarchia francese, i secondi accusati di appropriarsi di quel simbolo, come pretesto per fare i propri interessi, che credendo veramente nell’ideale di un universalismo a guida imperiale.

Oggi come allora  l’Italia appare dilaniata dalle divisioni interne e dagli interessi di parte, e non riesce a trovare la compattezza istituzionale necessaria a far sì che essa possa tornare, dopo anni di crisi, ad esercitare un ruolo di primo piano in ambito europeo.

Una divisione che riecheggia ancora nel VI del Purgatorio:

“Vieni a veder Montecchi e Cappelletti,

Monaldi e Filippeschi, uom sanza cura:

color già tristi, e questi con sospetti!

L’ultima parte del passo, invece che si riferisce al malgoverno potrebbe risultare ancora oggi attuale: Atene e Lacedemona, che fenno

l’antiche leggi e furon sì civili,

fecero al viver bene un picciol cenno

verso di te, che fai tanto sottili

provedimenti, ch’a mezzo novembre

non giugne quel che tu d’ottobre fili.

Quante volte, del tempo che rimembre,

legge, moneta, officio e costume

hai tu mutato, e rinovate membre!”

Insomma il nostro padre Dante ha ancora qualcosa da dirci adesso, in una situazione di emergenza come quella che ci troviamo a fronteggiare. Le sue parole possano farci ritrovare un genuino spirito di collaborazione e di unità, mettendo da parte una volta per tutte gli egoismi e le acrimonie di Guelfi e Ghibellini.

di Giacomo Bonetti

Giacomo Bonetti

Sono Giacomo Bonetti classe 2000 vengo da Fermo, splendida cittadina immersa tra le colline marchigiane. Studio Filosofia all'Università Cattolica di Milano.
Mi interesso di filosofia politica, morale, metafisica, letteratura e cinema. Tutto ciò che é umano mi appassiona.

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