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Perché i russi non se ne andranno dal sud dell’Ucraina

Perché i russi non se ne andranno dal sud dell’Ucraina

Sono ormai quattro mesi che la guerra infuria nell’Est ucraino. Dall’inizio dell’invasione delle forze armate della Federazione Russa le truppe ucraine hanno dovuto lentamente, ma non senza una lotta accanita e a tratti valorosa, retrocedere sempre di più verso l’interno del paese, attestandosi su linee più facilmente difendibili. Se alla vigilia dell’invasione la Federazione Russa […]

Sono ormai quattro mesi che la guerra infuria nell’Est ucraino. Dall’inizio dell’invasione delle forze armate della Federazione Russa le truppe ucraine hanno dovuto lentamente, ma non senza una lotta accanita e a tratti valorosa, retrocedere sempre di più verso l’interno del paese, attestandosi su linee più facilmente difendibili. Se alla vigilia dell’invasione la Federazione Russa e i separatisti di Donetsk e Lugansk controllavano, a seguito della guerra civile ucraina del 2014, circa il 7% del territorio ucraino, oggi, a quattro mesi dall’inizio dell’ostilità, Mosca e i suoi alleati locali controllano oltre il 20% del territorio di Kiev.

Questo +13% riguarda principalmente il sud dell’Ucraina, la cosiddetta Priazovia (la linea di costa ucraina sul Mar d’Azov) e la quasi totalità dell’oblast’ di Kherson; occupate dalle forze armate russe e separatiste sono anche la quasi totalità dell’autoproclamata Repubblica Popolare di Lugansk e oltre la metà di quella di Donetsk, che ha annesso la città portuale di Mariupol dopo mesi di furiosi combattimenti che hanno ridotto in macerie la città.

Se escludiamo i territori delle autoproclamate repubbliche di Donetsk e Lugansk, che Mosca riconosce come stati indipendenti, la Russia ha quindi posto sotto un governo militare di occupazione una vasta porzione dell’Ucraina meridionale, corrispondente alla quasi totalità degli oblast’ di Kherson e Zaporižžja, a cui si aggiunge un’ampia porzione, scarsamente popolata, dell’oblast’ di Kharkov. Si tratta di una lunga lingua di territorio larga tra i 130 ed i 90 chilometri, che corre da ovest a est per circa 450 chilometri dal paludoso estuario del Dnepr fino ai confini dell’autoproclamata Repubblica di Donetsk dove, almeno sulla carta, il governo è nelle mani dei separatisti locali e non dei militari di Mosca.

È difficile stabilire quante persone vivano al momento in quest’area, di cui si parla pochissimo rispetto al Donbass e ai dintorni di Kharkov e Izjum, dove avvengono la maggior parte degli eventi bellici. L’oblast’ di Kherson, prima dello scoppio della guerra, contava circa un milione di abitanti, oggi nominalmente tutti residenti sotto occupazione militare russa, a cui si aggiungono poco più di ottocentomila residenti nell’oblast’ di Zaporižžja, al netto del capoluogo, ancora in mani ucraine, nel quale risiedono altri ottocentomila abitanti, principalmente nei centri abitati lungo il Dnepr, a Melitopol e lungo la costa della Priazovia.

Perchè il sud dell’Ucraina è strategico

Si tratta quindi di regioni vaste ma scarsamente popolate, soprattutto se confrontate alle repubbliche separatiste, la cui popolazione sotto controllo dei filorussi è doppia (oltre tre milioni e settecentomila residenti). Tutti questi numeri, chiaramente, al netto del grande flusso di profughi avvenuto all’inizio della guerra, sia verso la Russia sia verso i paesi occidentali e le altre regioni dell’Ucraina ancora sotto il controllo di Kiev.

La scarsa popolosità dell’ampia regione meridionale sotto controllo russo non deve tuttavia trarre in inganno: si tratta infatti di un’area economicamente strategica per l’Ucraina, il cui controllo è vitale, per la Russia, allo scopo di mantenere al sicuro la penisola di Crimea, occupata nel 2014 e al momento raggiungibile solo dal ponte di Kerč o via mare. In questi territori occupati, proprio a causa della scarsa urbanizzazione, l’agricoltura ha una peculiare importanza economica.

Si producono qui il 20% della produzione nazionale ucraina di miglio, il 13% della produzione di grano, il 10% dell’olio di girasole, il 10% della colza. In quest’area si trovano inoltre infrastrutture di vitale importanza per il mercato dell’energia, tra cui la centrale nucleare di Energodar, sulla riva sinistra del Dnepr, che coi suoi sei reattori e oltre 5700 MW di potenza è attualmente l’impianto più grande d’Europa, coprendo da sola oltre un quinto del fabbisogno ucraino di energia, a cui si somma, più a sud, la grande centrale idroelettrica di Khakovka, con i suoi 357 MW di potenza.

Lo stesso Dnepr, importante via e riserva d’acqua fin dagli albori della storia dell’umanità, costituisce una risorsa preziosa per la Crimea, la quale necessita, per godere di approvvigionamenti idrici sicuri, del controllo russo sul Canale della Crimea Settentrionale, costruito in epoca sovietica per collegare il Dnepr con le città crimeane, il cui flusso era stato interrotto dagli ucraini nel 2014 per rappresaglia contro l’occupazione russa della penisola.

Basterebbero queste ragioni strategiche per dubitare seriamente che le truppe russe, una volta firmato un trattato di pace di cui ancora non si presagisce lontanamente nemmeno la stesura, lasceranno quest’area di Ucraina. A suffragio di tale sospetto si prestano anche diverse notizie, tra le poche ad arrivare in Occidente dai territori occupati, a proposito di una progressiva integrazione di quelle zone all’interno dell’amministrazione civile russa.

La russificazione

A Kherson, l’amministrazione militare locale sotto patrocinio russo, ovviamente non riconosciuta da Kiev, è nelle mani di Volodymyr Saldo, ex sindaco della città e deputato al parlamento di Kiev per il Partito delle Regioni, ai tempi fedelissimo dell’ex presidente Viktor Yanukovich, ma parla principalmente per bocca del vicegovernatore Kirill Stremousov, ex blogger e attivista filorusso, il quale non nasconde l’intenzione di procedere quanto prima all’annessione alla Russia dell’oblast’ di Kherson. Come tale processo debba avvenire, se in seguito a un plebiscito oppure per decisione unilaterale di Mosca, non è ancora chiaro, anche se, ha dichiarato lo stesso Stremousov, se ne parlerà solo a guerra terminata.

Ciò che è certo è che Stremousov dirige dallo scorso 10 Marzo il “Comitato di salvezza per la pace e l’ordine” nei fatti l’embrione di un’amministrazione civile russa a Kherson. Una strategia simile potrebbe essere adottata anche nell’oblast di Zaporižžja, il capoluogo del quale, però, è ancora saldamente nelle mani delle truppe di Zelensky. Ciò che è certo è altresì che la Russia ha avviato, ignorando le proteste internazionali, un’ampia campagna di concessione di passaporti ai residenti dei territori occupati nel sud del paese. Un copione, quello della concessione dei passaporti russi, che anche se non prelude esplicitamente all’annessione ricalca fedelmente quanto già visto prima del 2008 tanto in Abkhazia quanto in Ossezia del Sud, dove l’ampia presenza di residenti con passaporto russo ha poi giustificato l’intervento moscovita di “peacekeeping” contro la Georgia.

A queste decisioni fa seguito un’ulteriore serie di provvedimenti, meno roboanti ma non meno impattanti sulla vita di tutti i giorni, volti a legare sempre più il sud ucraino alla Federazione Russa. Già nei primi giorni di occupazione sono tornate visibili tutte le reti televisive di Mosca, in precedenza oscurate per ordine del governo centrale di Kiev e già dall’inizio di Maggio è stata avviata la transizione dalla grivnia, valuta ufficiale dell’Ucraina, al rublo russo. Utenze telefoniche e reti internet sono state scollegate dai gestori di Kiev per essere collegate alla rete di Mosca mentre solo da pochi giorni le autorità russe hanno condonato tutti i debiti pregressi contratti dai cittadini dei territori occupati con le banche ucraine e le aziende fornitrici di acqua, luce e gas.

A ciò bisogna aggiungere un intenso programma culturale volto a rivivificare tanto la cultura russa delle regioni occupate quanto la stessa lingua (entrambi gli oblast’ sono prevalentemente russofoni). A questo scopo la Russia invia, già da un paio di mesi, insegnanti e aspiranti tali provenienti dalla Crimea nelle scuole dei territori occupati, con l’obbiettivo di allineare gli standard delle scuole locali a quelli di Mosca, in particolare per quanto riguarda la lingua di insegnamento, il russo.

La penetrazione russa ha inoltre fatto breccia anche nel sistema dell’assistenza sociale, tanto che l’intero importo delle pensioni e dei sussidi di invalidità dei territori occupati è ormai a carico del welfare russo. L’ultima decisione, riportata dal New York Times, che sembra quasi confermare la volontà russa di non abbandonare le posizioni conquistate in quella che per Mosca è, significativamente, la Novorussia, è la concessione della cittadinanza russa a tutti i bambini che nasceranno da ora in avanti nei territori ucraini occupati da Mosca: una decisione che lascia poco spazio alla fantasia su quali siano le intenzioni russe per quest’area d’Europa, una volta che la guerra sarà finita.

Con le forze armate ucraine ormai prive di una marina militare, di un’aviazione, ormai quasi senza carri armati e artiglieria, e un insostenibile tasso di perdite vicino al migliaio al giorno (fonte: Corriere della Sera), sembra molto difficile che gli ucraini possano puntare alla riconquista manu militari di un territorio così vasto, oltre alle due repubbliche separatiste di Donetsk e Lugansk. La sorte dell’Ucraina meridionale sembra dunque sempre più appesa alle future trattative di pace tra Mosca e Kiev, le quali però saranno sempre più sfavorevoli alla seconda a mano a mano che il tempo passa e che le risorse, materiali ma soprattutto umane, del suo esercito si assottigliano.

Molto, per questi territori, dipenderà quindi dall’atteggiamento occidentale, in particolare quello tenuto da Stati Uniti e Regno Unito, ovvero i più accaniti seguaci della linea punitiva nei confronti della Russia. È molto probabile che più la linea anglosassone si troverà a prevalere rispetto a quella più prudente del duo Macron-Scholz, più i russi reagiranno aumentando l’integrazione dei territori del sud ucraino con la Russia e la russificazione stessa della popolazione.

Una popolazione la quale, va detto, a parte piccole ma pacifiche proteste iniziali a Kherson e Melitopol, sembra guardare con grande fatalismo e indifferenza al cambio di amministrazione. Si ha l’impressione, confermata dalle poche fonti realmente imparziali che ben conoscono l’Ucraina, che tanto il campo nazionalista quanto quello filo-moscovita costituiscano due ristrette minoranze all’interno del grande paese ex sovietico, laddove la stragrande maggioranza della popolazione, russofona o ucrainofona che sia, vorrebbe solo vivere in pace alla larga dalle rivendicazioni nazionaliste di entrambe le parti.

L’assenza, dietro le linee del fronte, di movimenti partigiani di resistenza tanto filoucraini quanto filorussi è indice probabilmente di questo atteggiamento: non pervenuta una resistenza filoucraina nelle regioni del sud e nell’oblast’ di Kharkov, così come non pervenuto è il movimento partigiano filorusso nell’oblast’ di Odessa e nella residuale parte occidentale del Donbass, ancora sotto controllo ucraino, che Mosca aveva più volte giurato di poter attivare a suo piacimento. Allo scoccare dell’ormai quarto mese di guerra sembra dilagare, in Ucraina, un rassegnato atteggiamento di accettazione dello status quo, che nasconde probabilmente solo il puro desiderio di vedere il conflitto terminare il più presto possibile, indipendentemente dall’esito e dal costo politico che ciò comporterà per l’una o l’altra parte. Per ora però nessuno sa quale futuro vi sia in serbo per queste zone, un futuro che però, e questa è l’unica certezza, non dipenderà dagli ucraini né dal loro governo, ma solo da due capitali lontane, Mosca e Washington, che ancora una volta decideranno di questa terra martoriata.

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Marco Malaguti

Marco Malaguti

Marco Malaguti (Bologna, 1988), appassionato di giornalismo, filosofia e civiltà orientali, vivo, lavoro e studio a Bologna. Da oltre dieci anni collaboro con testate, blog e think tanks che raccontano la politica europea ed il panorama culturale attuale. Mi occupo prevalentemente di politica estera e dirigo il portale culturale Essenzialismi.it

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