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Perché la Turchia si allontana dall’Occidente

Perché la Turchia si allontana dall’Occidente

Erdogan ha allontanato la Turchia dall'Occidente, mantenendo con esso un rapporto strumentale. Come si muove la politica spregiudicata del Rais

«Nell’attuale congiuntura critica, è imperativo per la Turchia e l’Unione Europea rafforzare la cooperazione su tutti i fronti, in particolare nei negoziati di adesione, che costituiscono il fondamento della loro relazione» così il Presidente della Turchia Recep Tayyip Erdogan alla vigilia delle ultime elezioni europee.

La dichiarazione del Raïs di voler rafforzare i rapporti tra Ankara e l’Occidente euroamericano rappresenta solo l’ultimo di una lunga serie di appelli quasi mai seguiti dai fatti. Storicamente, i rapporti tra la Turchia e l’Ovest hanno trovato la loro “età dell’oro” durante la Guerra Fredda, quando il timore suscitato dalla superpotenza sovietica spingeva Ankara nelle braccia del blocco occidentale.

Come sono scaduti i rapporti tra la Turchia e l’Occidente

Dopo il collasso dell’Urss e il drastico mutamento degli equilibri di potere nel sistema internazionale, la Turchia ha vissuto un profondo processo di transizione. Dai Balcani, all’Africa, fino all’Asia centrale, la fine del bipolarismo ha alimentato le aspirazioni geopolitiche di Ankara verso questi quadranti geografici, assieme alla riscoperta della sua antica vocazione imperiale.

A seguito della caduta del muro di Berlino, mentre l’Europa entrava nel ventennio della post-storia, la Turchia tornava a scriverla e a raccontarla. È infatti negli ultimi due decenni di unipolarismo che si è consumata la deriva dei rapporti tra questi due insiemi.

La Turchia e l’Occidente non si sono allontanati solo dal punto di vista culturale (si pensi al rifiuto da parte di Erdogan del kemalismo di matrice occidentalista), ma soprattutto nel modo di intendere le relazioni internazionali.

Per Washington la lettura dei rapporti tra potenze non ha mai cessato di essere quella di un campo di competizione a tutto tondo, e il rapido ritorno della Turchia a questa scuola di pensiero ha rappresentano per gli Stati Uniti un notevole grattacapo. Mentre per Bruxelles, la politica eccessivamente muscolare di Ankara segnava un allontanamento sul piano dei valori.

La Turchia dei primi anni Duemila intendeva comunque ancora presentarsi all’esterno come un Paese laico. Tuttavia, a partire dal 2010-2011 iniziarono a manifestarsi i primi segnali del neo-ottomanesimo turco. Cruciale in questa fase fu la riscoperta dell’islam in chiave politica, che prese piede parallelamente allo scoppio delle primavere arabe in Medio Oriente.

Fu in particolare la necessità di assumere un ruolo di guida nell’islam sunnita a determinare l’adozione di una nuova narrativa panislamista da parte di Ankara. Il battesimo di questa nuova postura geopolitica arrivò nel 2020, quando di fronte a migliaia di fedeli Erdogan presenziava alla prima preghiera nella nuova moschea di Santa Sofia, strappata al secolarismo kemalista.

Altri tentativi di smantellare il laicismo risalgono ad alcuni anni prima: la liberalizzazione nel 2013 del velo nei luoghi pubblici, la riproposta del matrimonio riparatore, la ridiscussione del reato di adulterio e il divieto di ogni manifestazione a favore della comunità Lgbt. Infine, la fuoriuscita dalla Convenzione di Istanbul sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne nel 2021.

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La Grande Moschea Benedetta della Santa Sofia

La politica spregiudicata di Erdogan

Erdogan negli ultimi anni ha rafforzato il suo potere, imbastendo un regime personalistico e maldisposto verso i diritti civili e le libertà personali. Lo stesso era stato definito come un “dittatore” dall’ex Primo ministro italiano Mario Draghi nel 2021, in un momento particolarmente complicato delle relazioni italo-turche.

La “deriva autoritaria” della Turchia ha sicuramente influito nella definizione, in peggio, dei rapporti tra Ankara e l’Ovest. Il colpo di stato militare nel 2016 volto a rovesciare Erdogan, tappa chiave nel processo di rafforzamento del suo potere, è stato soggetto a svariate interpretazioni (si parla anche di false flag). Una scuola di pensiero in particolare, abbracciata da certi ambienti della politica turca, incolpava gli Stati Uniti.

L’allora ministro del Lavoro turco, Süleyman Soylu, affermò che «L’America è dietro il colpo di stato». Questo perché il presunto organizzatore del golpe, il predicatore Fethullah Gülen – il dissidente più ricercato dal regime di Erdogan – godeva della protezione di Washington, che si è rifiutata di estradarlo in Turchia.

In generale, anche il mantenimento di forti legami economici, militari ed energetici con la Federazione Russa a seguito dell’occupazione della Crimea nel 2014 e dell’invasione dell’Ucraina nel 2022 ha contribuito ad allontanare la Turchia dai Paesi occidentali.

La vicenda dell’acquisto dei sistemi antiaerei S-400 russi da parte di Ankara nel 2017 (unico caso all’interno della Nato) e la conseguente espulsione della Turchia dal programma americano dei jet f-35, ha dimostrato tutta la contrarietà degli Stati Uniti all’intesa russo-turca sul piano militare.

Il caso di questo “matrimonio di convenienza” tra Ankara e Mosca riassume la strategia politica di Erdogan. Per il Raïs si tratta giocare su più tavoli, assumendo una postura da Paese non allineato. Dunque, non rompere con l’Occidente, ma rendersi anzi indispensabile all’occorrenza, come nel caso dell’accordo con l’Ue sui migranti per trattenere milioni di rifugiati siriani sul suolo turco.

Un altro esempio dell’assertività turca all’estero è quello che riguarda il dossier libico. Ankara è intervenuta a difesa di Tripoli nel 2020 contro le milizie del generale Khalifa Haftar. Dopo aver messo in salvo il governo di unità nazionale e inaugurato con quest’ultimo una stretta cooperazione politico-militare, la Turchia ha continuato negli anni a violare sistematicamente l’embargo Onu sulle armi, negando il consenso all’ispezione delle navi turche sospettate di trasportare materiale bellico verso Tripoli.

Più di recente, la retorica fortemente critica di Erdogan verso Israele e la solidarietà espressa verso Hezbollah e Hamas – considerate organizzazioni terroristiche dall’Occidente – ha sottolineato la distanza siderale che esiste sulla stessa questione tra la Turchia e il blocco occidentale.

La politica estera di Erdogan è acrobatica, intelligente ma rischiosa, alla cui base rimane la volontà di assecondare le spinte multipolari del sistema internazionale per guadagnare ampi spazi di manovra. Un proposito che inevitabilmente cozza con l’interesse statunitense a mantenere la propria primazia nel globo.

L’allontanamento della Turchia dall’Occidente, con cui mantiene comunque un legame privilegiato, è dunque dettato da interessi divergenti e dalla volontà turca di mantenere una presenza rilevante e autonoma all’estero. Oggi Ankara pensa di poter far da sola, senza dichiarare fedeltà assoluta a nessuno, ma solo a sé stessa.

Immagine in evidenza: https://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/1/15/Vladimir_Putin_and_Recep_Tayyip_Erdo%C4%9Fan_%282015-06-13%29_3.jpg

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Michele Ditto

Michele Ditto

Laureato in Scienze Politiche e delle Relazioni Internazionali presso l'Università Cattolica di Brescia, mi occupo soprattutto di Europa, spazio post-sovietico e Stati Uniti. Per Aliseo curo la newsletter settimanale di Lumina. Il mio scopo è sottolineare quello che c'è dietro i principali eventi geopolitici.

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