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Raffaello dopo 500 anni, l’artista grazioso

L’arte è una rivelazione indescrivibile, facente parte di un indicibile che va oltre le categorie conosciute. Non è definibile perché ogni fruitore tende ad interpretarla con una sensibilità irriducibile a minimi termini: l’arte è un mistero perché non concede punti di riferimento ma spunti di riflessione, unicamente rivolti ad un ricerca ardua che sfocia nella conoscenza del bello.

Per queste ragioni l’arte è considerabile come motus animi continuus, cioè come una continua “vibrazione” citando Flaubert: questo “movimento continuo dello spirito” è percepibile al cospetto di Raffaello Sanzio, pittore e architetto urbinate morto oggi 500 anni fa, che ha contribuito a rendere il mondo della bellezza un luogo di pura contemplazione estatica.

Definito da Giorgio Vasari nelle Vite come uomo “dotato di modestia e bontà”, è ricordato dalla memoria collettiva per capolavori intramontabili, perle di un ingegno sopraffino. Ma ciò che rende Raffaello uno dei più grandi interpreti della pittura di ogni tempo è racchiuso nell’aggettivo grazioso: rileggendo la sua biografia scritta dal Vasari, si evince come questo artista vantasse una “natura gentile aggiunto un ornamento bellissimo d’una graziata affabilità”, ma soprattutto come la natura “in Raffaello facesse chiaramente risplendere tutte le più rare virtù dell’animo, accompagnate da tanta grazia, studio, bellezza, modestia et ottimi costumi” (edizione Giuntina, 1568).

Come negare l’unicità di Raffaello. Nel 1504, a soli 21 anni, realizza lo Sposalizio delle Vergine, rifacendosi all’opera omologa dipinta anni prima dal suo maestro, Pietro Perugino: con questa tela magistrale, conservata a Brera, Raffaello surclassa il suo maestro, raggiungendo una padronanza tecnica e una intraprendenza stilistica mai vista in un allievo così giovane (morbidezza delle forme, collocazione dei soggetti a semicerchio, edificio sullo sfondo molto più leggero).

Da questo momento il giovane urbinate è l’artefice di un’ascesa clamorosa, trapunta di successi e traguardi: il periodo fiorentino coincide con la produzione di Madonne col bambino, spesso destinate ai grandi committenti della Signoria, che incarnano perfettamente la tecnica pittorica raffaellesca basata su un’armonia compositiva equilibrata mista ad una padronanza del colore e dei canoni classici. L’ambiente naturale fa da sfondo a i soggetti in primo piano che vantano una grazia amorevole, creata dalle disposizioni nello spazio e dalla convivenza di proporzioni sinuose.

Ma è a Roma che il venticinquenne Raffaello entra nell’Olimpo dell’arte.
Tra il 1508-1510, attorno a papa Giulio II gravitano artisti come Michelangelo, tormentato genio divino, e Bramante, nemico del Buonarroti e consigliere del pontefice: tra l’altro pare sia stato proprio Bramante a suggerire il nome di Raffaello per contrastare l’egemonia di Michelangelo, considerato da tutti il più grande artista vivente, e riuscire così ad applicare le sue teorie artistiche.


Nelle Stanze Vaticane è custodita la massima espressione dell’estro raffaellesco: gli affreschi come La scuola di Atene, simposio di filosofi e pensatori tra cui Platone e Aristotele, L’incendio di Borgo, tragico evento dell’847, e La liberazione di Pietro, uscita dell’apostolo Pietro dal carcere, sono solo alcuni dei mirabili omaggi di Raffaello concessi all’umanità.


Mentre Raffaello lavora nelle Stanze, Michelangelo affresca la volta della Cappella Sistina: il giovane pittore rimane talmente folgorato dall’opera del Buonarroti che inserisce nei suoi dipinti aspetti tipicamente michelangioleschi, come la virilità dei corpi, il dinamismo delle scene e il turbinio delle folle, pur mantenendo sempre una forte connotazione tradizionale, basata su equilibrio e armonia. Un sincretismo straordinario di potenza e grazia, di robustezza e sinuosità.

Nel 1514 Bramante muore ed è proprio Raffaello ad essere nominato “primo architetto del papa”, responsabile del cantiere di San Pietro (essendo ancora incompleta l’omonima basilica): prosecutore delle teorie bramantesche, debitore di Vitruvio e del De Architettura, Raffaello porta avanti una serie di modifiche con lo sguardo al passato, alla tradizione classica, avente come fine quello di conferire all’antichità il ruolo di protagonista indiscusso.

Raffaello muore giovanissimo il 6 aprile 1520 e Vasari descrive la causa del decesso come una “grandissima febbre” conseguenza di “fuori di modo piaceri amorosi”. Nella camera dove è morto è stata esposta la sua ultima opera, la Trasfigurazione (non terminata da lui), magnifica tavola dove l’uso della luce esalta la trasfigurazione di Cristo al cospetto di Giovanni, Pietro e Giacomo.

Come richiesto dallo stesso artista, Raffaello viene sepolto al Pantheon, con una effige sublime scritta da Pietro Bembo, il più grande petrarchista del ‘500, recitante Qui sta quel Raffaello: da lui, quand’era vivo, la gran madre delle cose temette d’esser vinta; e, mentre egli moriva, temette di morire.

Questo artista meraviglioso è sicuramente un pilastro del Rinascimento, tanto da essere considerato un modello da emulare per tantissimi generazioni pittoriche, perfino novecentesche.

“Tanto ardo, che ne mar ne fiumi spegner potrian quel foco” direbbe lui, e in un momento così difficile questo ardore deve tramutarsi in speranza e in aiuti concreti per superare insieme la tragedia coronavirus.

di Davide Chindamo

Davide Chindamo

Nato nel 1998, sono caporedattore della sezione Cultura.
Sono laureato in Scienze dei Beni Culturali, laureando in Filologia moderna e futuro dottore di ricerca in Letteratura. Sono un dandy appassionato di letteratura, filosofia e storia dell’arte. Ma la mia più grande vocazione è la scrittura: ho pubblicato due raccolte di poesie, intitolate "Apollo" (2020) e "Allegrezza solitaria" (2021), e un romanzo, "Il trionfo dell’Arte" (2022).
Collaboro con Aliseo per dimostrare l'assoluta modernità delle materie umanistiche e per difendere la loro natura profetica.

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