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La Rivoluzione ungherese

In un momento come quello odierno, in cui le nuove generazioni, sono come anestetizzate da un postmodernismo imperante, che offre loro falsi miti e false idee di libertà(l’ideologia edonistica dei diritti senza doveri), la Rivoluzione ungherese rappresenta un fulgido esempio di passione civile e di amore per la propria Patria. Infatti, solo riappropriandosi della propria identità, della propria cultura e della propria sovranità economica, una Nazione può difendere, oggi più che mai, la propria sovranità ed affrontare le sfide del presente.

La prima occupazione sovietica.

Alla fine della Prima Guerra Mondiale Budapest, che per più di 600 anni era stata capitale di un glorioso regno e che, come parte dell’Impero Austro-Ungarico, aveva conosciuto un periodo di fioritura politica, economica e culturale lungo circa un secolo, giaceva in uno stato di profonda prostrazione. L’Ungheria aveva dovuto cedere ben 2/3 del suo territorio e si trovava in una condizione di isolamento economico. L’unica soluzione per spezzare l’isolamento era quella di entrare nel bacino di influenza dell’URSS. Nel marzo del ’19 Bela Kuhn, segretario del Partito Comunista d’Ungheria, instauró una dittatura comunista, contando sull’appoggio pressoché totale del popolo ungherese che, molto abbattuto dal punto di vista morale, sperava in tal modo in un’occasione di riscatto. Sperava cioè di poter ottenere maggiori diritti in un’ottica redistribuiva delle ricchezze, che, in un popolo a base contadina, significava redistribuzione delle terre. Il capo del Partito Comunista Ungherese, invece, contrariamente all’opinione dello stesso Lenin, negò quest’ultima istanza, procedendo ad una collettivizzazione dei terreni, la cui gestione fu affidata ai vecchi proprietari e dirigenti.

Questo fatto, unito all’ostilità delle vicine Repubblica Ceca e della Romania, peggiorò ulteriormente la già disastrosa condizione economica dei magiari, alienando definitivamente le simpatie di gran parte del popolo verso soluzioni economiche di stampo socialista e marxista. La Repubblica Popolare Ungherese fu rovesciata dopo solo un anno dalle truppe dell’ammiraglio Horty il primo marzo 1920, che vide poi nell’alleanza con il fascismo italiano e con il nazismo la possibilità di rompere l’isolamento dell’Ungheria e di riottenere i territori perduti nella Grande Guerra, dapprima per via pacifica, cercando di ridiscutere i trattati di pace e successivamente impiegando le proprie forze nel secondo conflitto mondiale.

Disfatta nella Seconda Guerra Mondiale e Trattati di Pace.

La sconfitta nella Seconda Guerra Mondiale gettò la popolazione ungherese in maniera inesorabile ed inevitabile in una nuova e ben più grave crisi economica e, per la seconda volta, nelle grinfie di una trionfante Unione Sovietica. Nel febbraio del 1945, con una Germania ormai sconfitta, si erano riuniti i grandi capi delle tre nazioni vincitrici del secondo conflitto mondiale: Franklin Delano Roosevelt, presidente degli Stati Uniti d’America, il primo ministro inglese Winston Churchill e Iosif Stalin, dittatore dell’Unione Sovietica. A quest’ultima era stato riconosciuto il sacrificio immane del popolo sovietico nella lotta al Nazismo, sacrificio che meritava una ricompensa. Su parere di Roosevelt venne riconosciuta all’Urss la possibilità di annettere nella propria sfera d’influenza l’intero Est europeo, poiché si riteneva che grazie a ciò l’Unione Sovietica avrebbe lasciato in pace il mondo occidentale. Ai paesi Est europei rimaneva la possibilità di indire libere elezioni, ma, in realtà, quella che restava loro era una sovranità solamente formale.

Infatti, appena terminata la Seconda Guerra Mondiale, le elezioni ungheresi, si conclusero con la vittoria del Partito dei Piccoli Produttori, che ottenne il 57 per cento dei voti, lasciando dietro di sé il Partito Socialista e, staccato di ben 40 punti percentuali, il Partito Comunista, etero-diretto da Mosca. Tale risultato conferma la scarsa simpatia nutrita dal popolo ungherese, radicato nella tradizione rurale e cattolica, nei confronti di un nemico come quello sovietico, che già non molti anni prima, aveva causato il malcontento con scelte impopolari. Ora l’Armata Rossa occupava Budapest. Nel 1946 Tildy venne eletto presidente della repubblica e Imre Nagy nel ‘47 gli succedette come primo ministro.

La dittatura di Rakosi

Nel frattempo, il Partito Comunista a guida Rakosi procedette all’epurazione degli oppositori “fetta dopo fetta” e riuscì ad essere eletto nel ‘49, unendo a sé, con una fusione forzata, le forze dei socialisti. Di questo periodo è la rottura insanabile tra Stalin e Tito, che culminò con l’espulsione dal Comintern di Tito, reo di aver voluto avviare una politica autonoma rispetto agli interessi dell’universo sovietico. Stalin non si fidava più di nessuno e voleva operare un maggiore controllo.  Iniziò così un periodo di forte repressione contro chiunque non si attenesse all’ortodossia marxista-leninista e alle direttive politico-economiche di Mosca. Una vera e propria caccia alle streghe, che, nella sola Ungheria, portò all’epurazione di metà della classe dirigente. In maniera analogo avvenne in Cecoslovacchia, Bulgaria e Polonia fino a far salire a 10 milioni il numero degli internati nei gulag.

La morte di Stalin: i semi della Rivoluzione ungherese.

Il 5 marzo 1953, con la morte di Stalin, inizia il cosiddetto periodo di de-stalinizzazione, che, nel concreto, portò alla divisione della direzione del partito da quella del governo e questo garantì maggiore flessibilità in economia. In Ungheria venne promosso come primo ministro Imre Nagy da Malenkov, successore di Stalin, più aperto sia ad un’innovazione del movimento socialista, sia ad abbandonare le politiche di collettivizzazione forzata, sia anche a liberare i dissidenti e a permettere una certa libertà religiosa, liberando il primate della Chiesa d’Ungheria. Quando però Kruscev spodestò Malenkov e rimise Rakosi al suo posto, l’inquietudine e il malcontento tra i cittadini costrinsero Rakosi alle dimissioni. Egli fuggì in URSS, ma non prima di aver nominato un altro accanito stalinista come Gero.

Da manifestazione pacifica ad aperta Rivoluzione.

Nel frattempo, nella vicina Polonia centinaia di migliaia di polacchi scendono in piazza, riuscendo ad ottenere l’affidamento del governo a Władysław Gomułka e la liberazione del Cardinale Stefan Wyszyński. Il 22 ottobre 1956, a Budapest un gruppo di giovani studenti del circolo culturale Petofi, tra cui spicca il nome del giovane filosofo Lukacs, elabora i punti che devono servire da programma per la manifestazione del giorno seguente in sostegno della Polonia e di Gromulka. Si chiedono elezioni libere, ritorno al potere di Nagy, libertà di scelta in campo economico, libertà di pensiero. La manifestazione, che doveva avere carattere pacifico, si trasforma ben presto in vera e propria rivoluzione. I manifestanti si riversano nelle strade, bruciano le bandiere rosse, strappano il simbolo sovietico dalle bandiere ungheresi, danno alle fiamme i libri sovietici e si accaniscono con livore sulla colossale statua di Stalin, simbolo della ventennale oppressione. Gli eventi precipitano rapidamente quando la radio di Partito ha la pessima idea di ricordare il debito storico che gli Ungheresi devono sentire verso l’Unione Sovietica. E’ vera benzina sul fuoco, che si tramuta ben presto in incendio, facendo divampare la Rivoluzione ungherese. La folla si dirige verso la sede della radio con l’intento di metterla sotto sopra. L’AVH (la polizia incaricata da Mosca), che aveva il mandato di custodire l’edificio, non sa che pesci prendere e inizia a sparare sui dimostranti: è un’ecatombe.

In conseguenza di questi fatti, si riunisce il Comitato Nazionale che, da una parte, affida il potere a Nagy ma, dall’altra, chiede l’intervento dell’esercito sovietico. Il giorno seguente i rivoltosi assaltano le caserme, prendendo rapidamente possesso dei principali centri di potere della città. La direzione del Partito viene affidata a Kádár, che allontana gli stalinisti, ma senza riuscire a fermare la rivolta. Gli scontri proseguono più cruenti di prima: il valore degli ungheresi, sebbene in notevole inferiorità numerica, è tale che i sovietici non riescono ad avere la meglio. Mosca acconsente allora alla prima delle istanze popolari, quella di avere Nagy come primo ministro. Quest’ultimo accoglie tutte le istanze di rinnovamento espresse dal mondo operaio e contadino e comincia a contrattare il cessate il fuoco con l’Urss, oltre ad annunciare lo scioglimento dell’AVH e il ritiro delle truppe sovietiche, che avviene il 30 ottobre.

Risorgono sindacati, giornali e associazioni culturali, mentre vengono trucidati diversi capi politici e militari comunisti e si inizia a formare una Guarda Nazionale, con la collaborazione di gran parte dell’esercito, capitanato dal ministro della Difesa Per Maleter. Quest’ultimo, invece di sedare la rivolta,  si schiera dalla parte dei rivoltosi. Il popolo ungherese si culla, per una settimana, nell’illusione di essere finalmente uscito dall’incubo comunista, che, iniziato nel 1945, aveva impoverito il paese magiaro, imponendo un modello economico industrialista (basato sulla produzione massiva nel settore siderurgico) e collettivista (del tutto avulso da una realtà di piccoli produttori), e aveva prodotto un clima di repressione poliziesca e di intolleranza per ogni forma di libertà di pensiero e di culto.

La reazione dell’opinione pubblica internazionale

Nel frattempo, la notizia della Rivoluzione ungherese si diffonde rapidamente in tutto il mondo grazie ai resoconti di Luigi Fossati. Egli era presente casualmente a Budapest e si ritrovava così, del tutto inaspettatamente, ad assistere ai concitati eventi della rivoluzione. Gli articoli scritti dal giornalista dell’Avanti contengono un’accusa pesantissima all’Urss, quella di aver invaso militarmente l’Ungheria e aver soffocato ogni tentativo di rinnovamento e provocano perciò un vero e proprio terremoto all’interno del mondo socialista italiano. L’Unione Sovietica era identificata da tutta lEstrema Sinistra Italiana come la patria del socialismo reale per cui gli scritti di Fossati provocano un vero e proprio terremoto all’interno del mondo socialista. Si delineano così tre posizioni: quella di Pietro Nenni, segretario del PSI, quella di Togliatti e quella di una frangia del PCI, guidata da Antonio Giolitti. Il primo segna un definitivo distacco da parte della corrente maggioritaria del PSI dal mondo sovietico e la disponibilità a fornire in ogni modo aiuti alla popolazione ungherese affinché riesca a spezzare “gli schemi della dittatura in forme autentiche di democrazia e di libertà”. Dal canto suo Togliatti non è invece intenzionato ad abbandonare l’idea di socialismo del blocco sovietico perciò bolla i protagonisti e gli ispiratori della Rivoluzione ungherese come qualunquisti e provocatori e il governo come una direzione reazionaria.

Il segretario del PCI invita inoltre i “deviazionisti” del PCI a ritornare sui loro passi, ma Antonio Giolitti, firmatario del manifesto dei 101 intellettuali comunisti in favore della Rivoluzione e di un rinnovamento interno al mondo socialista, esce insieme ad altri sodali dal Partito, confluendo nel PSI. Si forma così tra PCI e PSI, un tempo “a braccetto”, una frattura insanabile. Il PCI resta legato all’ortodossia sovietica ed al principio secondo cui “si sta dalla propria parte anche quando si sbaglia”. Un sostegno deciso alla Rivoluzione ungherese arriva invece dalla componente giovanile del MSI, che si attiva in ogni modo per incitare l’Italia all’intervento anche attraverso molteplici interrogazioni parlamentari. Numerosi sono i ragazzi legati alle aree giovanili del Partito che decidono di immolarsi per la causa ungherese. Mirko Tremaglia tenta di formare un battaglione antisovietico e, seppur indagato per banda armata, parte per l’Ungheria. Qui riesce a soccorrere e portare in salvo a Bergamo numerosi ribelli.

Il crollo della Rivoluzione ungherese

Nel delicato equilibrio internazionale a guerra di Suez in corso, nessuno se la sente di offrire il proprio aiuto e di contrapporsi all’Unione Sovietica. Gli appelli del primo ministro Nagy all’Onu, rimangono così inascoltati. Come recita la canzone “Ragazzi di Buda” 10 anni più tardi, il mondo rimane “a guardare sull’orlo della fossa seduto”.

La tanto tento temuta reazione russa non tarda ad arrivare. Infatti, l’uscita dell’Ungheria dal Patto di Varsavia, la proclamazione di una repubblica multipartitica, la costituzione di un consiglio democratico dei lavoratori e, soprattutto, il presunto ma sempre smentito rischio di intervento militare americano allarmano profondamente l”Urss. Così la corrente guidata da Molotov prevale e Kruscev si risolve per l’intervento armato. È il 4 novembre 1956, quando i sovietici penetrano in Ungheria con un contingente enorme, superiore addirittura a quello che aveva affrontato Hitler. Le speranze dei rivoluzionari sono nulle.

I giovani ungheresi, sostenuti da gran parte dell’esercito passato nelle proprie fila, non hanno paura della morte, non la tengono in nessun conto, sono disposti a battersi con tutte le loro forze, anche al costo del massacro, pur di tentare di difendere un valore inestimabile quale quello della libertà democratica e della sovranità nazionale. La radio trasmette un ultimo accorato messaggio di Imre Nagy: “Qui parla il Primo Ministro Imre Nagy. Oggi all’alba le truppe sovietiche hanno aggredito la nostra capitale con l’evidente intento di rovesciare il governo legale e democratico di Ungheria. Le nostre truppe sono impegnate nel combattimento. Il governo è al suo posto. Comunico questo fatto al popolo del nostro Paese ed al mondo intero”.

Il bilancio finale è di 2.700 morti tra gli ungheresi di ambo le parti, la cattura di Nagy e Maleter, che verranno poco dopo giustiziati. È la fine della Rivoluzione. È il dolore dell’Ungheria, illusa  e tradita, inebriata dall’odore della libertà e ora precipitata nell’odore acre dell’oppressione. È il lamento di un popolo, cui é negato il sacrosanto diritto di tessere la propria storia da solo, di costruire la propria economia secondo le proprie tradizioni, soprattutto contadine e cristiane, e che invece è costretto a sottostare ad un industrialismo e ad un laicismo forzati che ne hanno oppresso e snaturato l’anima.

L’eredità della Rivoluzione ungherese

L’eredità della Rivoluzione ungherese viene raccolta dai partiti. Con la dissoluzione del mondo sovietico nel 1989, i partiti inaugurano il nuovo corso democratico ungherese, che guarda con speranza al mondo europeo. In tutte le scuole ungheresi è ormai da molti anni buona tradizione quella di intonare, dopo il saluto alla bandiera, accanto all’inno nazionale ungherese anche “Ragazzi di Buda”, la canzone che il mondo della destra italiana aveva dedicato alla rivolta. Tra i giovani politici dell’epoca spicca la figura di un venticinquenne, Viktor Orban che, allora sulle barricate, è oggi invece sulla plancia del governo ungherese, cui ha impresso negli ultimi anni un’impronta decisamente conservatrice e sovranista, interpretando, pur con qualche contraddizione, i sentimenti e le tradizioni del popolo ungherese.

Le contraddizioni del presente.

Nel contesto della sua politica appare però del tutto fuori luogo la rimozione della statua di Imre Nagy del 29 dicembre 2018 da Piazza dei Martiri, la Piazza del Parlamento, e la sua ricollocazione in piazza Jaszai Mari, dedicata alle vittime del Terrore Rosso. Questo gesto sembra voler sottolineare il distacco di Orban, rispetto ad un personaggio che, appartenente al mondo comunista, contrasta in qualche modo con la politica nazional conservatrice del premier ungherese. Nagy rimane comunque un uomo che  ha dato la propria vita per la sua patria. Un martire, peraltro ricordato come tale dallo stesso Orban nel giorno della sua riabilitazione, quando tenne un discorso che lo indicò all’attenzione mediatica di tutto il Paese, segnando l’inizio della sua carriera politica.

di Giacomo Bonetti

Giacomo Bonetti

Sono Giacomo Bonetti classe 2000 vengo da Fermo, splendida cittadina immersa tra le colline marchigiane. Studio Filosofia all'Università Cattolica di Milano.
Mi interesso di filosofia politica, morale, metafisica, letteratura e cinema. Tutto ciò che é umano mi appassiona.

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