I media ormai da tempo sono saturi di gas, l’oro blu che oggi la Russia vorrebbe negarci ma che ha bisogno di vendere e noi di acquistare. Lo scorso 5 dicembre l’Occidente ha introdotto una serie di strumenti per colpire Mosca sul fronte petrolifero. L’accordo ha permesso ai Paesi europei, quelli del G7 e all’Australia, di stabilire un tetto di 60 dollari al barile per il prezzo del greggio russo trasportato via mare. Contemporaneamente in Ue e Regno Unito è entrato in vigore l’embargo al petrolio russo deciso la scorsa estate, privando la Russia di quello che a inizio 2022 era il suo mercato di riferimento. Il prossimo passo sarà una misura simile per i prodotti raffinati del greggio russo, in arrivo il 5 febbraio prossimo.
Questa ulteriore mossa nella dura guerra economica contro il Cremlino segue la ratio di tagliare gli introiti della vendita di prodotti petroliferi, che per l’export russo rappresentano circa il 40% dei ricavi totali. Tuttavia, il price cap ha le sue criticità che potrebbero consentire ai Paesi terzi di aggirarlo: non può molto contro l’opacità di certi mercati, non intacca gli operatori non occidentali – tra cui la Russia stessa, che sta mettendo in piedi una “flotta fantasma” di oltre cento vecchie petroliere – e non copre le miscele di greggio, si pensi al noto Malaysia blend che consente all’Iran di aggirare molte sanzioni sul suo greggio.
L’accordo raggiunto in sede europea ha visto accendersi aspre discussioni tra europei occidentali e Paesi Baltici e Polonia che avrebbero voluto un tetto molto inferiore, dai 30 a 40 dollari al barile, per limitare ancora di più gli introiti di Mosca (il costo di produzione si aggira attorno ai 10 dollari al barile), osteggiando il cap a 60 dollari.
L’indice europeo Brent, riferimento per la vendita di greggio a livello internazionale, dal 5 dicembre a oggi ha conosciuto alterne vicende: prima è salito del 3% raggiungendo gli 87 dollari al barile, i mercati avevano intuito l’allentamento delle restrizioni da Covid in Cina – che per tutto il 2022 hanno pesantemente attutito la fame cinese di idrocarburi. Di contro, l’indice Urals del greggio russo ha continuato il trend ribassista raggiungendo i 63 dollari, poco sopra il tetto occidentale, allargando il divario con la controparte europea. Oggi i mercati scambiano il Brent a circa 78 dollari al barile, ben sotto i 90 dollari al barile dagli oltre 120 dollari di inizio giugno, intuendo i rischi legati al verosimile indebolimento della crescita economica globale.
Nel mentre si è mossa anche l’Opec+, l’organizzazione che lega i principali produttori petroliferi Russia compresa che ha deciso di ridurre la produzione: taglio da 2 milioni di barili al giorno (circa il 2% della domanda mondiale) da novembre fino alla fine del 2023. Scelta presa nonostante la richiesta statunitense di aumentare la produzione per abbassare i prezzi del carburante e aiutare l’economia globale, una chiara scelta di campo.
Urals: il petrolio russo all’assalto dei mercati internazionali
Va detto che in questa guerra tra Mosca e l’Occidente, il Cremlino ha chiaramente intenzione di non cedere sul fronte petrolifero: nel corso del 2022 dal comportamento russo sui mercati possiamo dedurre che sta prendendo forma una mossa ambiziosa: creare un benchmark finanziario sul greggio tipo Urals, che rappresenta il modello di riferimento per il petrolio russo nei mercati internazionali. Lo scopo perseguito dalla Russia sarebbe far entrare in scena un potenziale rivale dei greggi più scambiati.
Oggi la Russia commercia in petrolio e prodotti raffinati sia con i Paesi amici sia con i rivali occidentali sostanzialmente in due modi: stipulando accordi-quadro con le capitali straniere o partecipando, da membro del cartello Opec+, come attore del mercato secondo le classiche logiche di domanda e offerta globali in maniera conforme alla struttura dettata da Brent e Wti.
Partecipare al mercato conviene a Mosca, soprattutto economicamente, potendo contrattare prezzi più alti che con l’Urals non potrebbe applicare. Il greggio russo presenta ad oggi due caratteristiche essenziali: da un lato, un contenuto di zolfo decisamente più alto rispetto a quelli angloamericani (circa 1,5%) che lo rende di una qualità inferiore agli omologhi occidentali, dall’altro si giova dei minori costi dell’industria estrattiva russa e le economie di scala realizzate aiutano sensibilmente la Russia a rendere più conveniente il suo prodotto.
Ad ogni modo il prezzo dell’Urals, greggio ottenuto da miscelazione di varie tipologie di materia prima estratta negli Urali, nel delta del Volga e in Siberia, è sempre stato legato a quello del Brent, rispetto al quale usualmente si differenzia per 1-2 dollari al barile in meno. L’operazione speciale in Ucraina ha cambiato le carte in tavola. Mosca sta cercando di fare accordi diretti con i consumatori ed è arrivata ad applicare sconti di 30-35 dollari al barile per acquirenti come Cina, India e Turchia.
Oltre ai prezzi più convenienti la Russia ha abbassato il contenuto medio di zolfo della miscela, per rendere il petrolio Urals qualitativamente migliore, meno viscoso e pesante, quindi più facile da raffinare. Queste mosse in campo industriale ed economico hanno determinato, di fatto, la comparsa sul mercato di un nuovo greggio di qualità più elevata e prezzo inferiore con cui la Russia cerca di fare il colpo grosso: espandere il suo mercato per sopperire ai sempre minori acquisti delle controparti occidentali da un lato, cercare di imporre nuovo standard sulla cui base cercare sponde con l’Opec e l’Opec+, dall’altro.
Obiettivo sarebbe quello di mettere sul mercato un’alternativa al Brent/Wti puntando sull’Urals, che rappresenta l’80% delle esportazioni di greggio di Mosca. Questa mossa potrebbe infliggere un duro colpo al sistema incentrato sul dollaro, potendo aspirare a spostare il fulcro del mercato energetico globale lontano dall’Occidente. In media a maggio e giugno 2022, Mosca è riuscita a esportare 3,25 miliardi di barili di petrolio al mese, contro i 2,75 di febbraio, mese di inizio delle operazioni in Ucraina. Sfruttando i prezzi più favorevoli del greggio russo, l’India ha aumentato di cinquanta volte gli acquisti a circa 600 milioni di barili al mese.
Cina, India e Medio Oriente: chi compra il petrolio di Mosca
Nella giornata del 29 maggio si è toccato il record storico di petrolio russo venduto a Cina ed India, sempre più assetate: circa 64,3 milioni di barili in un solo giorno rispetto ai 24,7 milioni di media comprati da Pechino e Nuova Delhi prima della guerra, facendo registrare un aumento addirittura del 160%. Non solo l’estremo Oriente. Il petrolio russo risulta appetibile in lungo e in largo, perfino in Medio Oriente.
A febbraio, la Russia esportava in Medio Oriente 27.000 barili al giorno di petrolio e derivati della raffinazione (783mila al mese). Siamo passati a 220.000 barili al giorno (6,6 milioni al mese) nella regione più ricca di greggio al mondo, dove, come se non bastasse, si trova la nazione capace di essere la chiave per la partita russa: l’Arabia Saudita.
Perché Riad, alla luce della sua politica ambigua con il dragone cinese, se proseguisse l’intenzione espressa nei mesi scorsi di fare asse con la Cina per la vendita di titoli sul petrolio denominati in petro-yuan, potrebbe fare dell’Opec+ il contesto perfetto in cui la Russia potrebbe presentare il nuovo benchmark Urals. Mossa che avrebbe il risultato di spingere il cartello dei produttori e la principale economia consumatrice di greggio in uno stretto rapporto economico basato sull’energia, totalmente alternativo a quello Brent-Wti fondato sul dollaro.
La guerra combattuta sul fronte energetico prosegue senza esclusione di colpi, con un Occidente (specie il Vecchio Continente) costretto a una dura lotta con la Russia, in una posizione sempre più precaria. Stante questa situazione critica, il controllo su produzione e infrastrutture rende Mosca capace di rafforzarsi. Come in una difficile partita a scacchi ogni mossa compiuta contro di essa è seguita da una contromossa. Il rischio maggiore per l’Occidente è che la quotazione dell’Urals porti ad un epilogo infausto. Converrà tenere d’occhio le mosse della monarchia saudita , sempre più lontana da Washington ma più vicina a Pechino, come sembra certificare la recente visita del presidente Xi a Riad.
Foto in evidenza: Alexander Bobrov su Pexels