«Our assessment aligns with that of the UN, that Saif al-Adel is based in Iran». Con queste parole il portavoce del Dipartimento di Stato americano Ned Price ha confermato, lo scorso 16 febbraio, la valutazione del recente rapporto delle Nazioni Unite secondo cui il nuovo leader di al-Qaida sarebbe Saif al-Adel, ex colonello dell’Esercito egiziano e militante di lunga data del gruppo fondato da Osama bin Laden.
L’annuncio statunitense è rilevante per almeno due ragioni. In primo luogo, perché ha reso noto, a distanza di più di sei mesi dalla morte del precedente leader Ayman al-Zawahiri, il nome della presunta nuova guida del gruppo. “Presunta” dal momento che, ufficialmente, al-Qaida non ha mai nominato un successore. Il motivo di questa reticenza nella nomina è da ricercare nelle circostanze in cui al-Zawahiri è morto, ucciso il 31 luglio scorso da un drone americano a Kabul.
L’accordo di Doha – l’accordo del 2020 che ha normalizzato i rapporti fra Stati Uniti e Talebani e che aprì la strada alla vittoria definitiva di questi ultimi nella guerra ventennale – prevede che i Talebani, in cambio del ritiro delle truppe statunitensi dall’Afghanistan, si impegnino a impedire che gruppi terroristici usino il paese come base operativa per le loro attività. Ammettere dunque la presenza del vertice di al-Qaida a Kabul (peraltro in un edificio di proprietà di Sirajuddin Haqqani, leader dell’organizzazione terroristica omonima alleata degli “studenti coranici”) rappresenterebbe una evidente violazione degli accordi.
Il secondo punto significativo riguarda la collocazione di al-Adel. Egli infatti, secondo l’intelligence statunitense, si troverebbe in Iran almeno dal 2003 – anche se alcune fonti riportano dal 2001 in seguito agli attentati dell’11 settembre – prima agli arresti domiciliari dopo essere fuggito dall’Afghanistan e poi in un regime di semilibertà che gli ha permesso di svolgere le sue mansioni per al-Qaida senza particolari ostacoli.
Il fatto che egli si trovi a Teheran, quindi, getta nuova luce sui rapporti che la Repubblica Islamica intrattiene con il terrorismo internazionale ed è «un ulteriore esempio dell’ampio supporto che l’Iran offre al terrorismo e le sue attività di destabilizzazione in Medio Oriente e nel mondo», citando ancora una volta le parole del portavoce del Dipartimento di Stato.
L’Occidente al sicuro dal terrorismo?
La rivelazione dell’identità del nuovo Emiro Generale (questo il titolo ufficiale dei leader di al-Qaida) apre una riflessione più ampia riguardo lo stato di salute attuale dei movimenti jihadisti internazionali. Per avere un’idea generale di come le dinamiche legate al terrorismo siano cambiate è utile vedere i dati riportati nel Global Terrorism Index, un report annuale redatto dal think tank australiano Institute for Economics and Peace, nella più recente versione che prende in analisi l’anno 2021.
Dal rapporto risulta che tutto l’Occidente sta vivendo una fase di marcato calo delle attività legate al terrorismo islamista. Nel triennio che comprende gli anni dal 2015 al 2017, coincidente col periodo di maggiore forza dello Stato Islamico, furono 63 gli attacchi di matrice religiosa compiuti, risultati nella morte di 457 persone; nel 2021 gli attacchi compiti sono stati tre, con due vittime totali.
Le cause di questa drastica diminuzione sono molteplici e dibattute: l’ipotesi più logica, tuttavia, è che semplicemente, ad oggi, nessuna organizzazione jihadista ha la forza economica e logistica per organizzare attentati in luoghi dove la sorveglianza è più stretta. All’apice della propria influenza nel 2016, lo Stato Islamico aveva, secondo Forbes, delle entrate stimate di circa 2 miliardi di dollari annui; nel 2022 queste si sono ridotte a 150 milioni di dollari.
All’epoca esercitava anche il controllo su un’ampia area a cavallo tra la Siria e l’Iraq grazie alla quale riusciva ad avere, oltre a una solida base logistica, un’attrattiva maggiore per convincere un gran numero di foreign fighter a sposare la causa jihadista. L’andamento della guerra in questi due paesi, risultato nella sconfitta – quantomeno territoriale – dell’ISIS, ha indebolito il gruppo che oggi non ha più i mezzi per imporsi.
La nuova “Guerra al terrore” nel Sahel
In contrapposizione alla tendenza registrata in Occidente, nel continente africano si sta verificando un rapido aumento delle attività terroristiche di matrice islamista. Nella lista dei 10 paesi maggiormente colpiti dal fenomeno indicati nel Global Terrorism Index, la metà si trova in Africa, in ordine Somalia, Burkina Faso, Nigeria, Mali e Niger.
Ma il dato davvero significativo è un altro: i paesi nel mondo che hanno fatto registrare il maggior aumento percentuale di morti riconducibili alle attività jihadiste si trovano nella regione del Sahel. Per fare un esempio, in Burkina Faso nel 2016 si contarono 80 vittime del terrorismo mentre soli cinque anni dopo, nel 2021, sono state 732 rappresentando un aumento dell’815%. Le cifre, rispetto al 2016, sono più che quintuplicate anche in Mali e Niger.
All’instabilità cronica dei paesi della regione – testimoniata dai sette colpi di stato tentati negli ultimi tre anni – si sono aggiunte le dinamiche che hanno coinvolto il teatro mediorientale. La fine delle guerre civili in Iraq e in Afghanistan e la situazione di equilibrio formatasi in Siria (con circa l’88% del territorio nazionale amministrato dal governo centrale di al-Assad) hanno creato un contesto in cui è diventato difficile operare. La combinazione di questi diversi fattori ha reso il Sahel la scelta obbligata, e ideale, per le organizzazioni terroristiche per continuare a prosperare in uno scenario internazionale mutato.
Le organizzazioni più attive nel Sahel sono Jammat Nusrat Al-Islam wal Muslimeen (“Gruppo di sostegno all’Islam e ai musulmani”, noto anche con l’acronimo di JNIM), affiliato ad al-Qaeda, e lo Stato Islamico della Provincia dell’Africa Occidentale, ramo dell’ISIS attivo nell’area. Il quadro ad oggi risulta conteso: i due gruppi sono rivali e sono in piena guerra tra loro. Se da un lato questo stallo rende il conflitto più aspro, aumentando il numero di vittime, dall’altro lato rende impossibile a una fazione prevalere sull’altra, dando ai governi centrali dei paesi coinvolti un maggior margine di manovra per contrastarli.

Tutte queste ragioni spinsero il governo francese, in questo caso quasi in qualità di garante degli interessi europei, a intervenire in modo diretto: nel 2014 venne inaugurata l’operazione Barkhane che, tramite l’invio di truppe dell’Eliseo nei paesi del G5 Sahel, avrebbe dovuto arginare gli effetti delle attività terroristiche.
I dati, a più di otto anni di distanza, raccontano il sostanziale fallimento dell’operazione, con la Francia che ha concluso le sue operazioni in Mali e in Burkina Faso rispettivamente nel luglio 2022 e nel febbraio 2023. Se a questo si aggiunge la sempre maggiore presenza, in tutta l’Africa, delle milizie Wagner, risulta evidente come il Vecchio Continente non sia stato in grado di svolgere un ruolo determinante e che, di conseguenza, stia perdendo il controllo di una regione dalla quale, volenti o nolenti, passa il futuro della sicurezza europea.