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Yemen: perchè l’intesa tra Iran e Arabia non ferma la guerra

Nonostante il calo dell’intensità dei combattimenti e la recente intesa raggiunta tra Iran e Arabia Saudita, il processo di pace nello Yemen si presenta accidentato e aggrava la crisi umanitaria

«Questa è una vittoria per il dialogo, una vittoria per la pace e rappresenta una buona notizia in un momento di grande turbolenza nel mondo». Così Wang Yi, attuale direttore dell’Ufficio della Commissione Centrale per gli Affari Esteri cinese, descriveva il riavvicinamento diplomatico, patrocinato dalla Repubblica Popolare, tra Iran e Arabia Saudita iniziato lo scorso marzo.

In molti, oltre a Wang, tra politici e analisti, si aspettavano di vedere una graduale risoluzione tutti i conflitti per procura in cui sono impegnate le due potenze mediorientali. Eppure, a più di sei mesi dall’incontro di Pechino, si fa fatica a vedere dei risultati concreti che vadano al di là della retorica e un caso emblematico sembra essere quello dello Yemen.

Le origini di un conflitto sanguinoso

Per capire perché in Yemen la pace è ancora lontana bisogna analizzare le parti coinvolte e i loro obiettivi nel corso della guerra civile.

Sulla scia delle primavere arabe del 2011, il dittatore yemenita Ali Abdullah Saleh – presidente dal 1990 – venne costretto alle dimissioni e cedette l’incarico al suo vice Abdrabbuh Mansur Hadi che, l’anno seguente, vinse le prime elezioni libere della storia dello Yemen unito. Questo, però, non risolse i problemi radicati nel Paese: il quadro economico rimaneva critico e nelle regioni nord-occidentali al confine con l’Arabia Saudita iniziarono a raccogliere sempre più consensi i ribelli Huthi.

Protesta nella città yemenita di Sana’a, 2012 | Wikimedia Commons

Gli Huthi (la cui organizzazione è chiamata anche Ansar Allah, ovvero “Partigiani di Dio”) sono un gruppo armato ribelle che raccoglie la minoranza sciita zaydita del paese, nato nel 1994 e che, a partire dai primi anni 2000, si pose in contrasto con il governo di Saleh. Con l’arrivo al potere di Hadi il sentimento zaydita nei confronti del governo centrale yemenita non cambiò e nel 2014, dopo essersi assicurati il saldo controllo dei tre governatorati a nord della capitale, attaccarono e conquistarono Sana’a, costringendo Hadi all’esilio nel sud del paese.

Questo scatenò la reazione dell’opinione pubblica internazionale che si pose da subito in difesa del legittimo governo di Hadi: nel 2015 venne formata la coalizione internazionale – sotto la guida dell’Arabia Saudita e con il patrocinio degli Stati Uniti – che attaccò i ribelli Huthi, i quali godevano dell’appoggio della Repubblica Islamica d’Iran sulla base di legami religiosi (la religione musulmana sciita) e strategici (la guerra contro Riyad e Washington).

Perché l’Arabia Saudita vuole la pace?

Nel 2015, al momento dell’intervento diretto sul suolo yemenita della coalizione, l’obiettivo di Riyad era solo uno: sconfiggere gli Huthi per impedire la formazione di un governo filoiraniano sul proprio confine meridionale. La guerra ha però avuto uno sviluppo diverso: oggi gli Huthi controllano saldamente tutta la parte nord-occidentale del paese (inclusa la capitale) e i sauditi si sono arresi all’idea non solo di aver perso la guerra ma anche di dover trattare con loro per poter uscire velocemente dal conflitto. 


Questa posizione di debolezza nei confronti dei “Partigiani di Dio” ha reso l’Arabia Saudita vulnerabile anche sul fronte della sicurezza nazionale. Non sono stati rari, negli ultimi anni, attacchi Huthi compiuti sul suolo saudita come nel caso del bombardamento con droni e missili ai danni di un deposito di petrolio della Saudi Aramco (la compagnia petrolifera statale di Riyad) durante i giorni del Gran Premio di Formula 1 del 2022 a Gedda.

Non è da trascurare anche l’aspetto economico: secondo il think tank statunitense Wilson Centre, durante il picco delle operazioni, Riyad spendeva fino a 200 milioni di dollari al giorno per il mantenimento di tutta la macchina da guerra in Yemen. Questi costi – uniti alle minacce alla sicurezza interna – hanno reso il conflitto con gli Huthi incompatibile con gli obiettivi di ammodernamento e di investimento previsti nel piano Vision 2030, che ha la priorità assoluta sull’agenda del principe ereditario Mohammed bin Salman, rendendo la pace con i ribelli zayditi è l’unica strada percorribile.

Risultato di un attacco aereo saudita a Sana’a, 2015 | Wikimedia Commons

Il fallimento dei colloqui con gli Huthi

Eppure, nonostante le intenzioni di Riyad, le trattative si sono arenate e la normalizzazione dei rapporti con la Repubblica Islamica non sembra essere stata sufficiente a semplificare il dialogo tra i sauditi e i ribelli Huthi, per diversi motivi.

In primis gli Huthi, a differenza dell’Arabia Saudita, non hanno motivi per cercare un accordo di pace: lo status quo attuale è a loro vantaggio e il fatto di essere temuti da Riyad – e quindi di essere in una posizione di forza – li spinge a non cercare la pace a tutti i costi a meno di condizioni estremamente favorevoli.

In secondo luogo, è da sottolineare come Ansar Allah sia molto più indipendente da Teheran di quanto appaia dalla narrazione propagandata sia dallo stesso Iran sia dall’Arabia Saudita. Il supporto degli ayatollah agli Huthi negli ultimi otto anni si è limitato all’approvvigionamento di armi (comunque modesto in termini di volume) mentre da un punto di vista strategico i ribelli hanno sempre mantenuto una linea piuttosto indipendente, perseguendo i propri obiettivi e pensando solo in maniera marginale a seguire eventuali direttive di Teheran.

«Gli Huthi non sono Hezbollah» titolava, già nel 2017 la rivista specializzata Foreign Policy per indicare come l’influenza esercitata dall’Iran sui ribelli yemeniti non sia comparabile a quella che ha sull’organizzazione libanese. La rivista statunitense riporta anche di come, nel 2014, gli Huthi abbiano ignorato le direttive iraniane che suggerivano di evitare di attaccare la capitale Sana’a.

L’evolversi della guerra non ha cambiato le cose: anche nelle più recenti indagini di Al Jazeera e del think tank dei Paesi Bassi The Clingendael Institute viene sottolineato il particolare rapporto che gli Huthi hanno instaurato con l’alleato sciita, non di sottomissione ma di collaborazione per certi obiettivi circoscritti. Alla luce di queste dinamiche, è probabile che la recente intesa iraniano-saudita avrà un impatto limitato sulla questione yemenita e non influirà in maniera rilevante sul processo di pace.

La bandiera degli Houti esposta su un edificio, Yemen | Wikimedia Commons

Per avere successo, il processo di pace deve passare anche da Abu Dhabi

Iran e Arabia Saudita, però, non sono le uniche potenze straniere coinvolte (direttamente o indirettamente) nel conflitto yemenita. Intervenuti in una prima fase come parte della coalizione a guida saudita contro i ribelli Huthi, con il passare degli anni gli Emirati Arabi Uniti hanno iniziato ad agire con sempre maggiore autonomia e oggi sostengono una terza fazione che è emersa a guerra in corso, ovvero il Consiglio di Transizione del Sud (abbreviato in Cts), organizzazione politica secessionista che ha il controllo della parte sud-occidentale del paese in aperto contrasto con Riyad.

Quando, nel 2017, il fronte anti-Huthi si spaccò e il Cts vide la luce, Abu Dhabi intravide la possibilità di distaccarsi strategicamente dai sauditi. Dietro questo posizionamento c’è la volontà emiratina di esercitare influenza sulla costa sud dello Yemen per poter proteggere e potenziare le proprie rotte commerciali nei pressi dello strategico stretto di Bab el-Mandeb. 


I reali sauditi – infastiditi dal “tradimento” degli Emirati – non hanno mai riconosciuto l’indipendenza del CTS, tanto da escluderlo da qualsiasi colloquio di pace. Sembrerebbe però impossibile trovare un accordo definitivo senza considerare un governo che ha il controllo di circa 50mila chilometri quadrati di territorio, che comprende la città di Aden, il porto più importante del paese. Questo ha reso di fatto sterili i tentativi di pace proposti da Riyad che, prima o poi, dovrà fare i conti anche con i vecchi alleati di Abu Dhabi.

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