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Siberia, la crepa nell’amicizia senza limiti tra Russia e Cina

Migliaia di cittadini cinesi ogni anno si stabiliscono in Siberia, con crescente preoccupazione di Mosca. Due secoli di "questione siberiana" e un'amicizia difficile

Haishenwai è il nome della falla nell’amicizia senza limiti che lega Mosca e Pechino. Così, fino al 1860, veniva indicato l’accampamento di pescatori cinesi su cui sarebbe sorta la città, russa, di Vladivostok. Ora strette in un asse antiamericano apparentemente granitico, le due potenze si toccano lungo un confine di 4200 chilometri, troppi perché non vi appaia nemmeno una crepa.

Nel luglio del 2020 l’ambasciata russa in Cina pubblicava un video dei festeggiamenti patriottici tenuti in occasione del 160esimo anniversario della fondazione della città portuale. La contrapposizione tra Cina e Occidente era già realtà, così come la dichiarata amicizia tra l’Orso e il Dragone. Sulla piattaforma di microblogging Weibo, tuttavia, il video dell’ambasciata viene sommerso di critiche.

«Non è quella che in passato era la nostra Haishenwai?», chiede un utente. «Dobbiamo avere fiducia che questa terra ancestrale tornerà a casa in futuro», gli fa eco un altro. I commenti sono centinaia e alcuni provengono addirittura dal personale diplomatico cinese.

Questo piccolo incidente, subito rientrato, rimanda a una disputa vecchia quasi quattro secoli. Eredità di quando, nella Siberia orientale, Mosca e Pechino si davano battaglia per il territorio. L’ultima volta fu nel 1969, quando si affrontarono per il controllo dell’Isola Damansky (Zhenbao Dao per i cinesi) sul fiume Ussuri. Per sei mesi le forze russe e quelle cinesi diedero vita a scontri armati che costarono la vita a qualche centinaio di soldati e solo nel 2003 la questione fu risolta con un accordo che segnava una linea di demarcazione.

In sessant’anni i rapporti di forza sono invertiti di segno. Oggi nella Siberia orientale abitano circa sei milioni di russi, un ventesimo rispetto ai cinesi che abitano al di là della frontiera, nelle tre province di Jelin, Heilongjiang e Liaoning. Tale sproporzione demografica ha determinato una lenta ma costante colonizzazione sotto traccia dei territori russi, che desta preoccupazioni crescenti nella popolazione locale.

Già nel 1999 il governatore del territorio di Khabarovsk, Viktor Izhaev, avvertiva che «presto l’intero estremo oriente russo sarà comprato dai cinesi, sta avvenendo un’occupazione pacifica». In 20 anni, dinamiche interne e internazionali hanno velocizzato tale tendenza.

Nel corso degli scontri del 1969, la Cina catturò uno dei “nuovissimi” carri armati T-62, esposto a lungo al museo dell’Epl a Pechino | da Wikimedia Commons

Quattro secoli di questione siberiana tra Cina e Russia

Verso la fine del XVI secolo cominciava l’epopea che avrebbe portato la Russia fino alle sponde del Pacifico. Gruppi eterogenei di cosacchi, cacciatori di pelli e coloni partirono all’avventura attraversando il continente eurasiatico. Sconfitti i Khan delle steppe, i promyshlenniki – gli uomini della frontiera – spingeranno il dominio degli Zar fino allo stretto di Bering, raggiunto nel 1648, e oltre, assimilando nel mentre le popolazioni indigene.

Verso la fine del ‘600 gli avventurieri russi si scontrarono con i manciù della dinastia Qing per il possesso della regione dell’Amur, nella Siberia orientale, patria ancestrale delle stirpi tunguse che in quel momento reggevano l’impero. Dopo alcune scaramucce, nel 1689 la Russia zarista e la Cina imperiale siglarono il trattato Nerchinsk, che segnava un confine presso i monti Stanovoy. Il lago Baikal e il fiume Argun restavano alla Russia, che però cedevano parte dell’area a nord del fiume Amur.

L’intesa pacifica sarebbe durata circa due secoli. A partire dal 1856, mentre la Cina era impegnata nella Seconda guerra dell’Oppio, San Pietroburgo iniziò a inviare gruppi di coloni oltre il confine e nel 1858 il governatore della Siberia Orientale Nikolaj Muravyov, spintosi fino a Aigun, costrinse il governatore della città alla firma dell’omonimo trattato. Le terre a nord del fiume Amur sarebbero andate alla Russia, mentre il resto della Siberia orientale era temporaneamente dichiarato “condominio russo-cinese”.

L’occupazione russa della Siberia cinese tra XVII e XIX secolo | da Wikimedia Commons

Con la capitolazione dell’Impero di fronte alle potenze occidentali e con Pechino occupata da inglesi e francesi, la Cina acconsentì agli umilianti trattati di Peking. La Convenzione russo-cinese del 1860, infine, cedeva l’intera Siberia Orientale alla Russia. Lo stesso anno veniva fondata Vladivostok, sul sito del villaggio cinese di Haishenwai. Il secolo delle umiliazioni che Xi Jinping intende vendicare, a ben vedere, porta anche una firma russa.

La penetrazione cinese in Siberia

A partire dai primi anni 2000, la penetrazione cinese nella Siberia orientale è cresciuta sia in termini numerici che qualitativi. Sempre più spesso, cittadini della Repubblica Popolare chiedono visti turistici per l’ingresso in Russia, finendo per stabilirsi definitivamente al di là del confine. Ad oggi la popolazione cinese residente nella Siberia orientale è stimata tra 300mila e un milione di persone. Una fetta considerevole, data l’anemica demografia delle regioni di confine.

A preoccupare di più i cittadini siberiani è però il fiorire di aziende agricole e fattorie cinesi che negoziano l’usufrutto di ampi appezzamenti di terra con le autorità regionali a dei prezzi vantaggiosi. Nel 2015, ad esempio, ben 15mila ettari di terreno furono concessi alla Hua’e Xingbang, società cinese che produce macchinari agricoli, al prezzo simbolico di 5 dollari per ettaro. Secondo una stima della BBC, nel 2019 più di un sesto delle terre coltivate nelle cinque regioni russe di confine è attualmente gestito da cinesi. In alcune di questi territori, come nel Khabarovsk Krai, la quota si avvicina al 60%.

Molte delle aziende agricole cinesi favoriscono l’immigrazione dei connazionali, che costituiscono spesso la totalità della manodopera. Secondo una denuncia di Alexander Levintal, governatore dell’Oblast Ebraico Autonomo, le cifre dell’occupazione del suolo sono da rivedere al rialzo, dato che molto spesso sono ufficialmente cittadini russi ad affittare le terre, che solo in seconda battuta vengono “girate” ai fruitori cinesi.

La densità di popolazione nelle diverse province della Russia | da Wikimedia Commons

A favorire la penetrazione non è solo la porosità della frontiera, ma anche il trend di migrazione interna nella Federazione russa. Si stima che ogni anno circa 200mila persone lascino le aree rurali del paese per cercare fortuna nelle grandi città e le zone della Siberia orientale non fanno eccezione. Il conflitto in Ucraina ha richiesto un tributo anche dalle comunità russe dell’estremo oriente e le perdite, insieme a chi deciderà di non tornare nella terra natia dopo l’esperienza sotto le armi, peggioreranno la già fragile demografia della regione.

La preoccupazione da parte dei cittadini è palpabile. Sempre più spesso gli abitanti locali accusano l’amministrazione centrale e le autorità regionali di essere impotenti (o addirittura d’accordo) di fronte alle mire della Repubblica popolare. Nel mirino ci sono alcuni provvedimenti, come la legge 473-FZ del 2014, che facilitano l’uso di manodopera cinese e le relative richieste per i visti. Un’altra preoccupazione è costituita dalle pratiche invasive attuate dagli agricoltori cinesi, dall’uso di pesticidi tossici alla deforestazione illegale, che rischiano di desertificare le terre siberiane.

La posizione del Cremlino è particolarmente complicata. Da una parte la difesa dell’integrità territoriale agli occhi dell’opinione pubblica è il fondamento del mandato di Vladimir Putin. Dall’altra la crescente dipendenza dalla Cina e lo spopolamento delle regioni di frontiera, che rischiano di tramutarsi in deserto umano ed economico, potrebbero lasciare poca scelta.

Nel 2015 il caso della Hua’e Xingbang destò un’ondata di indignazione contro Mosca, sia da parte dei siberiani che delle frange nazionaliste della politica russa. Una dichiarazione di allora di Sergei Ivanov, a capo dello staff presidenziale, riassume le difficoltà delle autorità nel dirimere la questione siberiana: «Semplicemente, non abbiamo abbastanza popolazione. Se un investitore cinese vuole coltivare su una terra vergine a 200 km dal confine, per amor di Dio lo faccia».

Quanto vale la Siberia

Gli spazi sconfinati della Siberia sono l’ancora si salvezza della Federazione russa. Da qui proviene il 70% delle materie prime, gas e petrolio ma anche ferro, zinco e titanio, su cui la Russia post-sovietica ha fondato la sua ascesa. È dalle lande ghiacciate siberiane che Mosca estrae la ricchezza necessaria a sostentare la macchina statale. Tuttavia, la regione è ormai cronicamente incapace di attrarre investimenti e creare opportunità che spingano la popolazione a restare. Ad oggi molti dei centri costruiti durante l’industrializzazione sovietica rischiano di diventare città fantasma.

Allo stesso modo, è questa propaggine estremo-orientale che assicura a Mosca il suo unico accesso di livello ai mari caldi e ne fa una potenza indo-pacifica. Da qui la Russia si affaccia sul Mar del Giappone e sul Mare di Okhotsk, che a sua volta confluisce nel Pacifico settentrionale. Sprovvista di un corredo umano e materiale da superpotenza, la Russia può ancora sognarsi tale proprio in virtù di questa geografia, che la rende unico attore in grado di affacciarsi contemporaneamente sui due settori cruciali del pianeta, l’Europa e l’Indo Pacifico.

Il dilemma del Cremlino appare irrisolvibile nel breve termine. Impossibile che a Mosca non inizino a notare le somiglianze tra la situazione che prende forma nella Siberia orientale e lo sbilanciato “condominio russo-cinese” che Muravyov impose al governatore di Aigun. All’epoca fu il primo passo per la totale annessione russa della Siberia Orientale, oggi chissà.

Mosca si interroga per trovare un modo per arginare la “colonizzazione pacifica” senza compromettere gli imprescindibili rapporti con il Dragone, in quanto perdere la presa sull’estremo oriente non è opzione ammissibile. Da qui la necessità, invero ancora tutta teorica, di opporre alla penetrazione cinese investimenti e capitali russi e trovare un modo per ripopolare l’area. Compito improbo data la condizione generale della demografia russa e la grande quantità di risorse assorbita dal conflitto in Ucraina.

A peggiorare le cose, l’avvitata nazionalista imposta alla vita pubblica dall’inizio della guerra.  Difficile compattare l’opinione pubblica dietro la difesa della patria, mentre si lascia l’estremo oriente alla mercé della Repubblica Popolare. La spina nel fianco del Cremlino, in futuro, potrebbe non essere l’opposizione filo-occidentale ma quella patriottica, oltranzista, nutrita dallo stesso apparato culturale della Federazione russa.

L’amicizia senza limiti tra Mosca e Pechino durerà fino a che sarà imprescindibile per sostenere la competizione con l’Occidente. Il conflitto in Ucraina e la rinascita dell’Alleanza Atlantica cementano la coppia sino-russa, ma un capovolgimento di fronte potrebbe inverarsi con tempi sorprendentemente brevi al mutare della congiuntura geopolitica. Appena dieci anni intercorrono tra il momento dorato delle relazioni tra Urss e Repubblica Popolare Cinese nel secolo scorso – quando la Russia addirittura aiutava l’alleato nello sviluppo dell’atomica – e gli scontri sul fiume Ussuri.

Impossibile pensare, d’altronde, che la Cina abbia dimenticato la complicità russa nella partizione imposta al paese dagli occidentali. Tale commistione di amicizia e latente rancore è plasticamente visibile ad Heihe, cittadina cinese affacciata sull’Amur (qui un post sul tema del fotogiornalista Andrea Verdelli).

Ponti e strade per passare la frontiera, insieme alla linea del gasdotto Power of Siberia che qui entra nell’Impero di mezzo, afferiscono al primo aspetto. Nel vicino museo di Aihui, il cui accesso è tutt’oggi proibito ai cittadini russi, sono però esposti dei modellini che ricordano l’umiliante firma del trattato di Aigun. Un’umiliazione che Pechino continua a ricordare, lontano dai proclami trionfanti di amicizia senza limiti.

Foto in evidenza: “File:Vladimir Putin and Xi Jinping (2019-06-15) 08.jpg” by The Presidential Press and Information Office is licensed under CC BY 4.0.”Snow Mountains Reflecting” by evanforester is licensed under CC BY 2.0.

Francesco Dalmazio Casini

Archeologo redento, giornalista, appassionato di geopolitica. Nato a Roma e ritornato dopo una breve parentesi milanese per dirigere Aliseo. Mi piace raccontare i conflitti, le interazioni e il fattore umano degli attori internazionali. Ogni tanto faccio delle puntate nel campo dell’energia, della politica e della logistica. In altre parole mi piace spiegare cosa c’è dietro a quello che succede nel mondo. Una missione: portare la cultura dell’informazione approfondita (e lenta) in Italia.

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