Il movimento separatista per il Khalistan e l’operazione “Blue Star”
I sikh sono la quinta comunità religiosa organizzata per numero di fedeli. Sono oltre 26 milioni in tutto il mondo e ad oggi se ne contano circa 24 solo in India. L’idea monoteistica che caratterizza il centro delle credenze religiose sikh si affianca ad una serie di precetti, più o meno rigidi, che stabiliscono le norme sociali della comunità: dal pregare al fare la carità, fino alla raccomandazione di una vita priva di vizi “terreni”, seppur lontana dall’ascetismo delle forme più rigorose di induismo e buddhismo.
Nella seconda metà del XV secolo il primo mistico, Sri Guru Nanak Dev Ji, fondò nella regione del Punjab la religione sikh e dopo la sua morte il lignaggio dei maestri è sopravvissuto per circa due secoli. I “dieci guru” del sikhismo sono riconosciuti come i detentori della verità e i promotori attivi della fede nell’unico creatore.
Il Punjab, Stato federato indiano situato nell’estremo nord-ovest della nazione, è una terra ricca di storia che vanta una fortissima identità culturale e religiosa. La regione è infatti abitata principalmente (per circa l’80%) proprio dai fedeli sikh, minoranza religiosa la cui orgogliosa appartenenza storica al territorio punjabi ha spinto figure politiche, personaggi influenti e leader religiosi a promuovere movimenti separatisti e sovversivi dell’ordine religioso vigente.

Jarnail Singh Bindhranwale è considerato dai sikh di tutto il mondo un martire e una guida non solo spirituale. Divenne popolare intorno agli anni ‘70 tra i villaggi del Punjab per la propria opera di “restaurazione dei valori religiosi” attraverso un dialogo con la gioventù sikh e un’attiva partecipazione politica.
L’idea del leader religioso era quella di promuovere i valori originali del sikhismo, fede monoteista in cui il lignaggio dei guru assume straordinaria importanza per la trasmissione dei prìncipi della dottrina, e forse accendere nel cuore dei giovani la fiamma dell’indipendentismo. La realizzazione di uno Stato Sikh divenne presto qualcosa da rincorrere e costruire: nacque così l’idea di Khalistan. Il pensiero khalistani attirò una parte consistente della comunità sikh, nella quale idee rivoluzionarie e insurrezionaliste trovarono terreno fertile anche tra i fedeli più “moderati”.
La possibilità di un’autonomia per il Punjab aumentò notevolmente la popolarità dei concetti di Bindhranwale. Dopo il fallimento registrato nelle elezioni locali e in quelle per le nomine nell’organo che si occupa della gestione dei luoghi sacri del sikhismo (SGPC) tra gli anni ’79 e ’80, la linea adottata da Bindhranwale deviò verso una vera e propria militanza.
Accusato di essere il mandante degli omicidi di numerosi esponenti politici di partiti rivali avvenuti tra il ’78 e l’81, venne arrestato dalla polizia indiana e rilasciato per mancanza di prove. Ciò non fece altro che incrementare i consensi del leader tra i suoi seguaci e inasprire la condotta della polizia e la linea governativa discriminatoria nei confronti della comunità sikh, ormai organizzata in bande munite di numerose armi bianche e da fuoco. La violenza del governo raggiunse l’apice nel 1984. La fierezza della minoranza sikh e l’instabilità sociale che le idee di Bindhanwale avevano portato nel Punjab, scatenarono una risposta quasi senza precedenti da parte di Indira Gandhi, allora Primo Ministro indiano.

Nel giugno 1984 le forze governative diedero inizio all’operazione “Blue Star” con la volontà di porre fine al “Movimento per il Khalistan” e al decennio di guerriglia civile nella regione. L’operazione consisteva in un vero e proprio assedio, con operazioni militari contro i maggiori luoghi di culto dei sikh nei quali i ribelli avevano trovato rifugio.
Gli edifici vennero bombardati e, nonostante la disparità di forze in campo, i seguaci di Bindhranwale riuscirono persino ad abbattere alcuni dei carri armati dispiegati dalle forze indiane. La resistenza si dimostrò comunque inefficace, risultando in una delle macchie più sanguinose della storia indiana dal ’47 ad oggi: furono uccisi circa 500 sikh, tra cui lo stesso Bindhranwale, e altrettanti incarcerati con l’accusa di appartenere al movimento separatista.
Il genocidio dei sikh, tuttavia, provocò anche numerose perdite, il cui numero è ancora oggi incerto, tra i militari e diversi equipaggiamenti furono distrutti. La mossa di Delhi è ricordata come una delle più brutali vicende interne dall’indipendenza e ha incrinato irreparabilmente i rapporti tra la comunità sikh e le istituzioni nazionali.
Nell’ottobre dello stesso anno due guardie del corpo sikh assassinarono la leader del Congresso Indira Gandhi come rappresaglia per il genocidio avvenuto appena cinque mesi prima. La storia indiana è dunque macchiata dalla violenza dell’operazione “stella blu” e dagli inevitabili strascichi di una risposta così radicale.
Dopo la Blue Star: violenza genera violenza
Nei mesi successivi al massacro e all’uccisione della Gandhi, in tutta l’India si registrarono episodi di discriminazione verso la comunità sikh e decine di omicidi hanno macchiato le strade di Delhi e delle maggiori città dell’India settentrionale.
La vendetta contro i mandanti della Blue Star è continuata fino al 1986 quando due sikh assassinarono a Pune il capo di stato maggiore dell’esercito indiano A. S. Vaidya. Negli ultimi decenni un’apparente stabilità sembrava aver finalmente condotto le due parti ad una convivenza pacifica; tuttavia, la situazione non è affatto rosea come alcuni media locali fanno percepire.
L’incanto di un Punjab in pace è continuamente interrotto da episodi di violenza sporadica. Da un lato gli omicidi sono mirati a personaggi influenti e amati dalla comunità, come quello avvenuto nel maggio 2022 ai danni di Sidhu Moose Wala, cantante della scena musicale del punjabi accusato di promuovere la cultura delle armi, dall’altro prendono di mira contadini o preti sikh probabilmente vittime della violenza indiscriminata, che ancora oggi avvelena le coscienze di frange fanatiche di cittadini indù.

La morte di Moose Wala, secondo le fonti della polizia opera di esponenti di una gang rivale, ha scosso gran parte della comunità sikh, che vede un intento politico dietro l’assassinio del cantante, da sempre impegnato attraverso la propria musica nella denuncia dei presunti soprusi del governo sulla comunità punjabi.
Specie a partire dalla pandemia, le comunità del Punjabi hanno sofferto una grave crisi economica. La popolazione locale, che vive di agricoltura potendo vantare una delle terre più fertili del mondo, è allo stremo anche a causa di riforme come il provvedimento del 2020, voluto dal governo Modi, che si occupava di regolamentare e liberalizzare il più grande settore privato dell’economia indiana. L’agricoltura, infatti, dà lavoro a circa 650 milioni di persone in India e la popolazione punjabi è in gran parte occupata proprio nel settore agricolo.
La riforma va a modificare i processi di vendita e lo stoccaggio di prodotti agricoli, tagliando le gambe tutti i piccoli contadini che non hanno possibilità di negoziare i prezzi del mercato o di accumulare grosse quantità di cereali. Il provvedimento ha ovviamente scatenato proteste in tutto il paese, dall’Harayana al Punjab, e le associazioni di contadini non solo hanno bloccato la produzione e le strade del paese per giorni, ma hanno dato vita a un vero e proprio movimento.
Le lunghe marce su Delhi di milioni di piccoli produttori e imprenditori agricoli hanno caratterizzato i mesi più caldi del 2020, scontrandosi però con la ferrea volontà dell’attuale governo di tenere il punto sul provvedimento. Tra i volti noti della comunità sikh, inoltre, proprio lo stesso Moose Wala aveva apertamente assunto posizioni critiche verso la legge sull’agricoltura.
I sikh nel mirino anche in USA, UK e Canada
Le comunità sikh di tutto il mondo non sono state risparmiate dalle discriminazioni, a volte sfociate in crimini veri e propri. Negli Stati Uniti, secondo la “Sikh Coalition”, oggi abitano circa 500.000 sikh. A seguito dell’11 settembre 2001, sono stati registrati decine e decine di casi di “rappresaglia”, ovviamente mirati a cittadini arabi o arabi americani, che hanno però preso di mira la minoranza indiana.
Eclatante, appena quattro giorni dopo l’attentato alle torri gemelle, l’assassinio di un sikh da parte di un abitante dell’Arizona, autodefinitosi “un patriota”. Ciò che sfuggiva all’omicida e a chi come lui ha compiuto questi atti di rappresaglia è che i sikh non sono arabi né musulmani.
I sikh sono infatti soliti portare un turbante e lunghe barbe, come prescritto dai libri religiosi della comunità. Ancora oggi l’aspetto dei sikh è per i cittadini americani spesso causa di “abbagli” etnico-religiosi, che li portano a scambiarli per seguaci dell’Islam. La Sikh Coalition riporta infatti che tre minori su quattro hanno subito da coetanei episodi di bullismo e violenza nelle scuole o nelle strade americane.
Nel Regno Unito e in Canada la discriminazione che ha preso di mira tutta la comunità sikh si è fatta più subdola e moderna: le associazioni sikh, come riportato anche dalla BBC, hanno segnalato circa un centinaio di profili fake attivi sui social che avrebbero voluto l’immagine della comunità online. Definendosi “RealSikhs” questi account trattano i problemi della comunità in maniera divisiva, delegittimando le cause per cui i sikh si battono quotidianamente. Arrivando a definire i contadini in protesta nel 2020 come “terroristi khalistani” e millantando l’infiltrazione da parte di gruppi terroristici nelle manifestazioni, gli account fake cercano di manipolare, per fini ignoti, l’opinione pubblica.
La condanna del Regno Unito a questo genere di propaganda faziosa è un fattore rassicurante per la comunità sikh, la quale sembra però al centro di una sistematica discriminazione persino in territorio straniero.
Lo scontro con Delhi prosegue
La natura radicale e guerriera dei sikh, la fierezza e i valori che ne caratterizzano la filosofia e la religione, si scontrano con la necessità indiana di superare le divisioni e, più che mai, bloccare sul nascere nuovi colpi di coda da parte del movimento separatista.
Latitante dal 18 marzo 2023, è stato arrestato in aprile il nuovo volto del Movimento per il Khalistan, Amritpal Singh. La cattura arriva circa un mese dopo l’attacco alla stazione di polizia di Ajnala, nel quale diversi agenti sono stati feriti e alcuni veicoli danneggiati a seguito dell’agguato di Singh e di un gruppo di seguaci armati di coltelli e fucili automatici.
Le fonti sikh riportano che si sia consegnato spontaneamente, tuttavia rimane un duro colpo per i sostenitori del movimento indipendentista, i quali perdono un membro di spicco. In appena un mese le autorità sono riuscite dunque a consegnare alla giustizia l’esecutore dell’attacco alla stazione della polizia e ad imporre di nuovo la presenza governativa nella regione.

La direzione della comunità rimane però un problema per le politiche di Modi, il quale non può tollerare, in nome dell’unità nazionale, una bomba ad orologeria pronta ad esplodere di nuovo in uno degli stati strategicamente più importanti del paese.
Immagine in evidenza: “Dont pass” by Riccardo Maria Mantero is licensed under CC BY-NC-ND 2.0. “Sikh symbol – simple orange Khanda” by Hari Singh is licensed under CC BY 2.0.