La guerra civile siriana è finita, sotto il punto di vista prettamente militare, nel 2018. Con la riconquista di Aleppo, la frammentazione definitiva del campo ribelle moderato e la caduta dell’Isis il regime di Assad ha potuto tirare un sospiro di sollievo e ristabilire un controllo più o meno diretto su gran parte del paese. Ad eccezione della zona est/nord-est e di alcune enclavi a nord sul confine turco, il resto della Siria è largamente ritornato nella disponibilità di Damasco.
Ma le atrocità non si sono fermate con l’attenuazione del conflitto. Né la condizione media degli abitanti è migliorata nei quattro anni che sono passati dalla conclusione dello scontro diretto tra ribelli e regime. Il paese che vediamo oggi è ancora ben lontano da una pacificazione e da un ritorno alla normalità, sempre ammesso che ci si possa riprendere mai veramente dalle distruzioni e dalle atrocità commesse in sette anni di guerra senza regole.
Tredici milioni di siriani hanno dovuto lasciare le proprie case, buona metà dei quali lasciando il paese per cercare una protezione umanitaria in paesi vicini, i quali non sempre hanno potuto, o voluto, garantirla. Mezzo milione di morti in undici anni, di cui più di dieci mila sono bambini, completano il quadro di una nazione in ginocchio e devastata dalla brutalità di due parti in lotta, che non hanno mai lesinato atti indescrivibili e che raramente hanno messo un freno all’utilizzo di strumenti bellici devastanti.
La guerra siriana è stata un testamento di cosa possono fare due fazioni in lotta per il potere in uno scontro a somma zero, in cui la posta in gioco è l’annientamento completo. E di annientamento si parla se si considera in che condizioni è precipitata la Repubblica Araba Siriana.
Il problema è però che quello che agli occhi di un osservatore esterno potrebbe sembrare una calamità, in Siria potrebbe esser vista come un’occasione da non perdere. La massa di persone che si è spostata ed ha lasciato il paese, unita a quella che è andata ad ingrossare le fila degli internally displaced, è principalmente di confessione musulmana sunnita.
I sette milioni di siriani che sono fuggiti in altre nazioni per sfuggire alla guerra sono per la gran parte appartenenti alla componente della società siriana su cui il regime può fare meno affidamento, mentre la gran parte di quelli che sono rimasti nel paese, specialmente quelli che non hanno abbandonato le proprie case, appartengono alla setta alawita da cui gli Assad traggono il proprio potere. È chiaro che non è nell’interesse del regime facilitare il rientro di una fetta della popolazione difficilmente controllabile e potenzialmente ostile, oltre che largamente impoverita.
Si va quindi delineando la possibilità che il regime, nel suo insieme, decida che una Siria con sette milioni di persone in meno sia la migliore opzione per mantenere il potere a tempo indeterminato. Il calcolo è quanto mai semplice: meno sunniti significa in proporzione una maggiore percentuale di alawiti e drusi, generalmente non ostili al potere. Se a questo si aggiunge un territorio più piccolo di circa un terzo, a causa della sostanziale indipendenza della Jazira sotto controllo curdo, si può notare come la nuova Siria che Assad potrebbe voler costruire nel dopoguerra abbia un aspetto completamente diverso dalla Repubblica distrutta nel 2011.
Ma, come tutto quello che riguarda la Siria, non è così semplice. Il fatto che Assad abbia vinto la guerra non significa che il paese sia nella sua disponibilità: tra gli alleati che hanno permesso al Presidente di rimanere in carica sono in molti ad essere entrati in Siria per restarvi. Tra tutti, oltre ai russi, spicca Hezbollah.
Hezbollah e il confine libanese
Il Partito di Dio libanese è entrato nel conflitto siriano nel 2012 e ad oggi non sembra avere nessuna intenzione di ritirarsi. Sul quanto e sul come il loro supporto al Presidente Assad abbia influito sul raggiungimento dello status attuale si è molto discusso ma una cosa è certa: Hezbollah ha inviato in Siria un numero sconvolgente di uomini, secondo alcune fonti anche diecimila, e si è radicato sul territorio lungo tutta la fascia di confine con il Libano. Da quelle piazzeforti così vicine alla base delle operazioni tipica delle milizie del Partito sono state lanciate violente offensive contro i ribelli e, cosa molto più importante, è stata tenuta aperta la linea di comunicazione tra l’ovest fortemente alawita del paese e la capitale Damasco.
Il controllo del confine da parte del Partito ha creato non pochi malesseri all’interno della cerchia del Presidente, abituata a gestire tramite operatori locali e milizie private il lucroso traffico del mercato nero nella traiettoria Siria-Libano. Ciononostante, visto il supporto dato da Hezbollah al regime, negli ultimi anni si è lasciato agire indisturbato il partito libanese in quelle aree.
Ma non è detto che lo stato di cose attuale regga anche in futuro, specialmente se la presenza di miliziani libanesi dovesse progressivamente ridimensionarsi o dovesse non esser più necessaria. Difficile però che Hezbollah abbandoni le roccaforti che ha conquistato tanto duramente e che gli permettono di strutturare una profondità operativa e strategica mai prima d’ora immaginata. Il Partito dovrà pur avere una contropartita per i quasi duemila uomini che ha perso in Siria.
Dovesse decidere di radicarsi stabilmente lungo quella zona, magari spostando civili sciiti dal Libano alla Siria o stanziando i propri miliziani in pianta stabile lungo il confine, si altererebbe ancor di più la composizione etnico-settaria del paese. È noto che sono già in atto in alcune parti della Siria, specialmente nel sud che fu focolaio della rivolta, espropri forzati di abitazioni e attività appartenenti a Sunniti così da ridistribuire la componente più fedele al regime in maniera coerente su tutto il territorio.
Non è inimmaginabile che ciò divenga la norma anche a fronte di moltissime proprietà rimaste completamente abbandonate a causa delle varie migrazioni interne ed esterne. Il regime potrebbe sfruttare questo stato di cose per colpire ancor più duramente l’elemento della società siriana che viene considerato più critico, ovvero i già citati sunniti.
Poco conta che durante la guerra civile gran parte degli abitanti di Damasco, sia sunniti che alawiti, sia rimasto fedele al regime e che durante le prime proteste a Daraa si siano presentati anche degli Alawiti. Da anni ormai il conflitto è stato classificato secondo linee di faglia di tipo settario e difficilmente si riuscirà ad uscire da questo modo di vedere le cose.
Quello che era nato come un tipico scontro Centro-Periferia è ad oggi raccontato come una specie di rivolta Sunnita al dominio Alawita. Ciò può anche avere una sua base di plausibilità, ma si tratta come sempre di una semplificazione che mal si adatta alla complessità della fattispecie siriana. Hezbollah combatté in Siria non per fedeltà settaria verso una piccola setta deviante dello sciismo, ma piuttosto per meri calcoli geopolitici. Così come fece l’Iran e a maggior ragione la Russia.
Assad ha ripreso il paese ipotecandolo
Quello che bisogna capire qualora si voglia dipingere un quadro serio della situazione odierna in Siria è questo: il regime ha vinto la guerra, non con i propri mezzi, ma ha creato uno stato di cose nel paese tale per cui è ad oggi impossibile per lo stesso governo di Assad esercitare un controllo diretto e sicuro sul territorio. La guerra l’hanno vinta le milizie iraniane, libanesi e gli aerei russi.
Mentre questi ultimi è difficile che si radicheranno sul territorio modificando la composizione sociale della popolazione, le milizie sono invece un problema grave per la tenuta stessa della società siriana. Ad oggi, in Siria, le milizie si sono ritagliate uno spazio di manovra e dei canali di controllo di alcune zone talmente forti da rivaleggiare, e spesso superare, quelli del regime.
Ovviamente Assad non può privarsi dell’appoggio di coloro i quali hanno, di fatto, salvato il suo trono. Tuttavia, non può neanche abdicare al controllo di due terzi del suo paese senza controbattere. Da qui arriva la necessità di una sorta di progetto d’ingegneria sociale che, come abbiamo detto, ha lo scopo di alterare la composizione etnico-settaria di alcune parti del paese.
Creando delle enclave alawite in territori adiacenti alla capitale Assad tenta di estendere il suo controllo e di consolidarlo in quelli che considera degli snodi vitali. Nel tempo riuscirà, probabilmente, a riprendere pezzo dopo pezzo il paese dalle mani dei vari signori della guerra partendo da queste roccaforti. Sarà un processo lungo e penoso e che probabilmente sfocerà in più punti in un vero e proprio pogrom contro la popolazione sunnita, già vittima principale della guerra.
Al giorno d’oggi è vero ciò che molti dicono: ad Assad conviene una Siria ridimensionata di un terzo e con 13 milioni di abitanti piuttosto che l’intera vecchia Repubblica Araba Siriana con i suoi quasi 20 milioni di cittadini. A questo scopo ed in questa cornice s’inseriscono anche i nuovi rapporti con le forze dell’SDF che controllano la Jazira e che porteranno la regione a divenire una specie di regione autonoma speciale all’interno di una quasi-Federazione.
Un po’ come il Kurdistan iracheno e sempre ammesso che i turchi smettano di bombardare senza sosta tutta la regione. A tal proposito è interessante notare anche i nuovi e rinati collegamenti tra Assad ed Erdogan, ennesimo testamento del fatto che al regime non interessa riprendere il controllo dell’intero paese, ma solo delle aree ad esso più congeniali.
Nel tetro futuro che attende la Siria non c’è posto per un ipotetico ritorno dei rifugiati all’estero e nonostante le pressioni che fa su questo la Turchia è impensabile che il regime voglia veder tornare in patria così tante persone appartenenti ad una componente della società di cui non si fida. È più probabile che vengano fatti stanziare in massa lungo il confine turco in tutta quelle serie di enclave ribelli ancora esistenti intorno alla città di Idlib, in cui si muore di freddo, di fame e di barbarie.
Non proprio una prospettiva tale da spingere i sette milioni di siriani all’estero a prendere tutto ciò che possiedono ed incamminarsi lungo la strada per Damasco. La Siria non è più in guerra da ormai quattro anni, ma non è nemmeno in pace. E non lo sarà nel prossimo futuro.
Foto in Evidenza: “Bashar al-Assad propaganda” by watchsmart is licensed under CC BY 2.0.