La vittoria di Fico in Slovacchia, le tensioni con Varsavia e il malessere degli Stati Uniti (e dei repubblicani) ricordano all’Ucraina che la corda degli aiuti militari può spezzarsi
In questo report:
- La Slovacchia conta più di quanto pensiamo
- Dalla Polonia agli Usa: le elezioni fatali
- Che cosa deve davvero temere Kiev
Dopo il risultato nelle elezioni generali dello scorso sabato, Robert Fico ha ricevuto dalla presidente slovacca Zuzana Čaputová l’invito a formare una nuova coalizione di governo. Il 23% incassato dai populisti di Smer non basta a governare in autonomia, ma Fico potrebbe trovare la sponda della forza di centrosinistra Hlas e dei nazionalisti del Partito nazionale slovacco. Se l’accordo andasse in porto – come alcune dichiarazioni del leader di Hlas Peter Pellegrini fanno intendere – l’alleanza arriverebbe a 79 seggi sui 150 totali del parlamento.
Le elezioni nel piccolo Paese dell’est europeo – appena 5,5 milioni di abitanti – potrebbero avere un riverbero importante sul conflitto in Ucraina. Fico non ha mai fatto mistero dell’ostilità al supporto militare a Kiev, promettendo agli elettori di fermare il flusso di aiuti bellici. Pur non sposando mai direttamente le ragioni del Cremlino, dai banchi dell’opposizione Fico è stato uno dei più accesi oppositori delle sanzioni occidentali contro Mosca – in maniera simile al premier ungherese Viktor Orban, non a caso uno dei primi a congratularsi.

Per Kiev i risultati delle elezioni slovacche arrivano in un momento molto complesso. Come notano diverse testate occidentali, il supporto dei principali partner dell’Ucraina potrebbe affievolirsi, sacrificato sull’altare delle incipienti tornate elettorali. Una congiuntura negativa ulteriormente peggiorata dalle difficoltà incontrate sul campo e dall’emergere nel dibattito di voci critiche nei confronti della guerra – non ultima quella di Elon Musk, che dopo mesi di supporto logistico a Kiev sembra pronto a guardare altrove.
Quanto conta la Slovacchia
Il precedente governo slovacco, guidato da Eduard Heger, è sempre stato sempre in prima linea al fianco dell’Ucraina. Si tratta di un supporto prezioso per Kiev, ben più di quanto i numeri lascino presagire.
In senso assoluto la Slovacchia figura a malapena al ventesimo posto come fornitore di armi all’Ucraina. Ponderando le forniture alla mole economica del Paese, tuttavia, Bratislava sale alla posizione numero sei – leggermente davanti rispetto alla Polonia. Eppure la Slovacchia è stato un partner importante. Bratislava è stata tra i primi fornire a Kiev alcuni sistemi critici come i caccia Mig-29 e i sistemi di difesa antiaerea S-300.
Ma a fare della Slovacchia un perno cruciale della catena degli aiuti ci sono le peculiarità della sua industria pesante. Le fabbriche slovacche sono tra le pochissime che in Occidente producono ancora munizioni impiegabili dai sistemi sovietici – dai proiettili di artiglieria ai razzi grad – che le forze ucraine utilizzano ancora in numeri importanti.

Dall’inizio del conflitto la Slovacchia – proprio per queste peculiarità industriali – era stata individuata come uno dei player più importanti per la creazione di nuove linee di produzione di proiettili di artiglieria. Grazie ai fondi dell’European Peace Facility, cooperazione in ambito Nato e finanziamenti da parte del Foreign Military Financing statunitense, in parte già ricevuti, Bratislava intendeva portare le sue capacità di produzione intorno ai 150mila proiettili all’anno. Cifra considerevole se si pensa che un colosso come gli Stati Uniti arriva a toccare “appena” quota 350mila.
Se la Slovacchia si sfilasse dagli aiuti l’Occidente perderebbe un asset importante – oltre che tempo e denaro. Un colpo di certo non fatale, ma ben più esteso di quanto la piccola economica slovacca lasci intendere. Stiamo infatti parlando di un dossier fondamentale, quello delle munizioni di artiglieria, che dal 24 febbraio tormenta la macchina degli aiuti occidentale, assolutamente impreparata al consumo di proiettili richiesto da un conflitto ad alta intensità.
Il caso polacco
Il monito di Bratislava echeggia ancora più forte perché arriva poco dopo quello di un altro alleato di ferro di Kiev: Varsavia. Il 21 settembre il premier polacco Mateusz Morawiecki affermava che la Polonia avrebbe interrotto il sostegno militare a Kiev, dirottando gli sforzi verso le proprie forze armate. L’annuncio del premier polacco non arrivava come un fulmine ciel sereno ma dopo settimane di tensione intorno alla questione del grano ucraino, tra minacce di cause al Wto da parte di Kiev e l’embargo informale deciso da Varsavia.
A muovere il frontman di Diritto e Giustizia, tuttavia, era lo spettro delle elezioni generali, che si terranno il prossimo 15 ottobre. Il partito del premier è ancora avanti nei sondaggi ma l’opposizione inizia a mettere pressione, come dimostra la marcia indetta da Donald Tusk a Varsavia il 1 ottobre, cui avrebbero partecipato più di un milione di persone.
Per aumentare il margine Morawiecki torna a corteggiare l’elettorato scettico nei confronti del supporto a Kiev, a partire da quegli agricoltori che già lo scorso febbraio accolsero Volodymyr Zelensky nella capitale con una serie di manifestazioni di protesta.
Alcune frizioni si sono riaffacciate anche nel corso della settimana, dalle contestazioni per la standing ovation al reduce delle Waffen SS concessa al parlamento canadese (alla presenza di Zelensky) alle proteste per il mancato invito delle industrie di Varsavia a un forum della Difesa a Kiev.
L’assenza del ministro degli Esteri polacco dal consiglio europeo che si è tenuto nella capitale ucraina il 2 ottobre – dovuta al “periodo di declino” delle relazioni trai due Paesi, come ha ammesso lo stesso Zbigniew Rau – è indice che la tensione non è stata ancora scaricata.
L’annuncio di Varsavia, probabilmente, non determinerà un cambio di rotta radicale. Il 3 ottobre Polonia e Ucraina hanno annunciato di aver trovato un accordo sul transito di cereali, che sarà dirottato verso il porto lituano di Klapeida.
Lo stesso giorno il ministero degli Esteri ha affermato che le aziende polacche erano effettivamente state invitate in Ucraina, rimangiandosi i reclami. Eppure è difficile non intendere un certo affaticamento da parte polacca, che potrebbe legittimare i Paesi meno coinvolti a fare un passo indietro.
Gli Stati Uniti divisi, con Trump alla finestra
A preoccupare più da vicino Kiev c’è però soprattutto il malessere statunitense. Mentre la Casa Bianca e il Pentagono si dicono finalmente pronti a inviare i missili Atacms – che i funzionari ucraini richiedono da più di un anno – il Congresso è costretto a cedere alla fronda isolazionista dei repubblicani. I “congiurati” di Matt Gaetz hanno infatti spinto la Camera bassa statunitense a approvare un bilancio provvisorio che non prevedesse aiuti all’Ucraina per scongiurare il rischio di shutdown.
Si tratta di una misura transitoria, che copre le spese fino al prossimo 17 novembre. Appare scontato che gli aiuti americani all’Ucraina non finiranno dall’oggi dal domani e saranno probabilmente inclusi nella prossima manovra. Tuttavia la vicenda esplicita le divisioni interne al panorama politico statunitense, le cui faglie andranno ad acuirsi sempre di più mano a mano che ci avviciniamo alle prossime elezioni, fissate per il 5 novembre 2024.

Proprio il dossier ucraino potrebbe essere il volano per rilanciare il messaggio isolazionista che già nel 2016 regalò la Casa Bianca a Donald Trump. Il Tycoon non ha mai fatto mistero delle sue posizioni sul tema e ha più volte affermato che sarebbe stato in grado di porre fine al conflitto in meno di 24 ore – sulla pelle degli ucraini, si intende.
Tra i candidati repubblicani alle prossime primarie per incontrare un volto esplicitamente a favore del supporto militare all’Ucraina dobbiamo arrivare a Nikki Haley, che i sondaggi danno quasi cinquanta punti percentuali sotto Donald Trump.
Al netto delle rassicurazioni della Casa Bianca, in settimana è arrivato un altro monito per Kiev, sempre da oltreoceano. Si tratta di un documento “sensibile ma non classificato” di cui dà notizia Politico, secondo cui Washington è estremamente preoccupata per la percezione della corruzione in Ucraina, che potrebbe spingere i Paesi occidentali a ritrattare il loro supporto.
Al netto della tempistica sospetta – si ricordi la relazione complessa tra giornali americane e agenzie di intelligence – la notizia fornisce quantomeno un appiglio ideale a quanti sostengono che sia arrivato il momento di spingere Kiev a trattare. Una fronda sempre più rappresentata negli Stati Uniti, vero ago della bilancia della questione ucraina.
Quanto è solido il sostegno militare all’Ucraina?
Nell’analizzare la salute del blocco che sostiene Kiev non bisogna scambiare la dialettica elettorale per la direttrice geopolitica profonda degli attori. Eppure le democrazie occidentali devono tenere in conto in conto le inclinazioni della propria opinione pubblica. Affaticata da un triennio economico non esattamente felice, questa rischia di prestare sempre più attenzioni alle voci che vorrebbero un accordo con la Federazione.
Implicitamente, lo spettro del voto spingerebbe i decisori verso posizioni più accomodanti. Una condizione che potrebbe intercettare anche il supporto degli apparati di sicurezza, preoccupati per i risultati deludenti della controffensiva ucraina e l’affaticamento del comparto militare-industriale. L’allarme lanciato dal Pentagono in merito alle forniture che scarseggiano negli arsenali statunitensi è la conferma che tali paure iniziano a farsi strada anche nelle agenzie.
Assistiamo ancora una volta a indizi contrastanti. I Paesi dell’Unione Europea hanno di recente accordato a Kiev un nuovo pacchetto di aiuti cinque miliardi di euro e ribadito il supporto sul fronte dell’addestramento. La presenza di un secondo governo esplicitamente non allineato – quello slovacco – potrebbe però complicare notevolmente l’approvazione di nuove tranche da parte europea.
Scossoni e non deragliamenti, per il momento, che esplicitano la differenza esiziale tra i due contendenti che si affrontano sul campo. Per la sostenibilità del conflitto Kiev dipende dall’esterno, Mosca no. Da qui la necessità ucraina di dare una spallata decisiva al fronte. Ipotesi esplicitata prima della controffensiva di giugno, che per il momento si è scontrata con magri successi contro la “linea Surovikin”. Basteranno gli Atacms promessi dalla Casa Bianca a sparigliare le carte?
Foto in evidenza: By EU2017EE Estonian Presidency – Tallinn Digital Summit. Welcome dinner hosted by HE Donald Tusk. Arrivals, CC BY 2.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=91607220