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Soldi, top player e controversie: lo sportwashing nel Golfo

Il rinascimento internazionale del Golfo passa per lo sport, tra controversie sui diritti umani e contratti miliardari ai top player

I tantissimi appassionati di calcio di tutta Europa ormai lo sanno. Il mondo del loro sport sta cambiando molto rapidamente, perché si è spostato l’asse di potere, soldi e interessi. E così può succedere che il campionato mondiale si giochi in un Paese senza tradizione calcistica e nell’altro emisfero come il Qatar, dando vita al primo torneo mondiale della storia in inverno.

L’immagine retorica che è rimasta impressa è quella di Lionel Messi che alza la coppa più importante della sua carriera indossando il Bisht. Si tratta del mantello tradizionale del Golfo Persico, simbolo di prestigio e ricchezza di chi lo indossa. Il fuoriclasse argentino se lo è ritrovato messo sulle spalle dall’emiro del Qatar, Tamim bin Hamad Al Thani, e ha svolto tutti i festeggiamenti indossandolo, con i colori biancazzurri della maglia della sua nazionale coperti dal nero della mantella.

Certo, forse di un’immagine troppo retorica, ma si è trattato del momento in cui lo sportwashing è asceso agli onori delle cronache. Con questa espressione si vuole descrivere l’utilizzo dello sport per ripulire la propria immagine. La tesi di chi accusa gli Stati Arabi di sportwashing è che usino sport come il calcio o il golf per farsi conoscere e riscattare il proprio prestigio agli occhi dell’opinione pubblica internazionale.

Si parte dal denaro

Lo sportwashing ha iniziato ad essere centrale negli ultimi anni, ma quest’estate sembra essere giunto un nuovo livello. Si sta registrando un vero e proprio esodo di sportivi, anche di alto livello, verso i campionati e i tornei del Golfo

Lo scarso appeal di queste competizioni è compensato da contratti o premi faraonici, spesso dieci volte più alti di quelli europei. Se c’è una cosa che da quelle parti non manca, infatti, sono i soldi. Poche, ricchissime famiglie che possiedono praticamente tutta la ricchezza dei loro Paesi; l’area del Golfo potrebbe essere la regione del mondo con più diseguaglianza economica. Per questo è possibile investire cifre astronomiche nello sport.

Palazzi immensi e uno spirito di grande rinnovamento nascondono però sfruttamento, assenza completa di diritti umani, discriminazione delle minoranze, riciclo di denaro sporco. In diversi di questi Stati pena di morte è largamente praticata, anche senza regolare processo, come denunciato più volte da Amnesty International.

Proprio il mondiale di calcio in Qatar dello scorso anno ha mostrato tutte queste criticità. Ancora prima dell’inizio della competizione, erano emerse le condizioni terribili dei lavoratori impegnati nella costruzione degli stadi, con più di 6500 morti, turni durissimi e paghe da fame. Altro motivo di protesta fu la discriminazione della comunità Lgbt. 

Escluso l’episodio legato a Messi, ci sono stati episodi di protesta più o meno silente da parte dei calciatori, delle federazioni nazionali e di altri addetti ai lavori. I giocatori della Germania hanno scattato le foto di rito tappandosi la bocca, altri si sono rifiutati di giocare (molto pochi per la verità, e nessuno dei “big”), altri ancora non hanno cantato l’inno della propria nazione.

Bisogna poi inserire questo quadro in un momento storico in cui i Paesi del Golfo sono sempre più lontani dall’Occidente, sia a livello politico che sociale. Con la guerra in Ucraina  molte petromonarchie si sono avvicinate alla Russia, sposandone l’agenda attraverso la riduzione della quota di petrolio prodotta, e alla Cina. Anche le differenze culturali sembrano insormontabili, a causa di culture religiose, sistemi di governo, leggi e costumi completamente diversi da quelli occidentali. 


Un nuovo livello di sportwashing

Di recente l’Arabia Saudita ha invertito il processo canonico, iniziando ad acquistare calciatori celebri invece che investire nelle competizioni sportive occidentali. In copertina, come spesso è accaduto, Cristiano Ronaldo. Il fuoriclasse portoghese, in difficoltà da qualche anno in Europa, ha firmato un contratto con cifre semplicemente fuori scala: si parla di un miliardo in 5 anni più bonus e clausole, con possibilità di accedere a ruoli di prestigio una volta ritirato.

Arrivando al All-Nassr, club misconosciuto al di fuori dell’Arabia, Ronaldo ha dichiarato che presto quello saudita sarebbe diventato uno tra i campionati più competitivi al mondo. Se all’inizio sembrava un bluff, il calciomercato estivo ha dimostrato che la potenza economica senza paragoni dei club arabi convince più di qualche calciatore.

Già in passato Stati Uniti e Cina avevano iniziato ad attirare calciatori europei con contratti ricchissimi, ma mai top player come sta accadendo in Arabia. La comunità calcistica europea, tifosi in testa, è in subbuglio. Nessuno è al sicuro dalla vendita dei propri calciatori più pregiati, in un processo che sembra semplicemente inarrestabile.

Lo sportwashing nel golf

Un altro sport in cui l’Arabia Saudita ha investito molto è il golf. Non potendo comprare i giocatori come nel calcio, si è deciso di creare un campionato a parte, che faccia diretta concorrenza con il Pga Tour americano. Si tratta del Liv Tour, 54 buche e un montepremi di 25 milioni di dollari complessivi, di cui 4 al vincitore.

Pare inoltre che i giocatori più celebri abbiano ricevuto incentivi per passare da un torneo all’altro. In America non l’hanno presa benissimo, decidendo di escludere per sempre dal proprio Tour i golfisti che sarebbero passati al Liv. Alla fine, dopo accuse finite anche in tribunale, si è deciso di fondere i due circuiti.

Altri sport coinvolti dallo sportwashing sono stati la Formula 1 (con l’inserimento del circuito di Jeddah nel calendario), boxe e wrestling. Insomma, si potrebbe davvero parlare di un “attacco” a tutto tondo al mondo dello sport occidentale allo scopo di mostrarsi ricchi, potenti e soprattutto vincenti.

In particolare la F1 sta vivendo un momento particolare. Dopo l’acquisizione del format da parte di Liberty Media, il Motorsport ha cercato di aprirsi al mercato più ricco del mondo, quello americano. Lo ha fatto con cambiamenti al regolamento per favorire le lotte in pista e con una forte spettacolarizzazione sui social. Ha fatto scuola in questo senso la serie “Drive to survive” di Netflix, anche se ultimamente è finita al centro di alcune polemiche. 

Tuttavia, anche l’accesso del Golfo arabo fa molta gola, perché significa aprirsi a nuovi sponsor e investitori. Da qui deriva la scelta di inserire nel calendario il circuito di Jedda. Inoltre pare che un fondo saudita possieda quote non dichiarate della scuderia Mclaren, una delle partecipanti storiche alla competizione.

Discorsi simili si possono fare per gli altri sport presi di mira: grandi investimenti, acquisizione di quote delle varie società sportive, sponsorizzazioni e il tentativo di far svolgere gli eventi sportivi nelle città più opulente del Golfo.

Siamo sicuri che lo sportwashing sia una novità?

La parola sportwashing è nata solo 2015. Fu coniata dall’attivista di Reporters sans frontières Rebecca Vincent per descrivere l’uso dello sport al fine di acquisire prestigio internazionale e mettere a tacere le critiche. Era la prima volta che il fenomeno veniva circoscritto e individuato come problema a sé stante.

Tuttavia, non serve scomodare il “Panem et circenses” di Orazio per ricordare l’utilizzo che facevano gli imperatori romani dei giochi. Non erano solo momenti di svago per la cittadinanza, ma atti politici. I sovrano mostravano la propria potenza e la propria ricchezza organizzando i giochi lunghi e sfarzosi possibile.

Allo stesso modo possiamo nominare le giostre medievali, le manifestazioni rionali come il palio di Siena, il calcio fiorentino e così via. Arrivando in tempi più recenti altri esempi non mancano. Basta la presenza della curva sud degli ultras del Milan al funerale di Berlusconi per riflettere su quanto la figura del politico scomparso da poco fosse impressa nell’immaginario comune ancora prima della “discesa in campo”.

Il caso Mbappe e Macron

Ancora più recentemente, il presidente Macron ha sfruttato i successi della nazionale francese di calcio per affermarsi politicamente e per mostrare come la Francia possa superare i problemi di razzismo. Il presidente dell’Eliseo è arrivato a insignire i calciatori della “Legion d’onore”, sottolineando le origini straniere di molti di loro.

Non a caso proprio in questi giorni pare che Macron sia intervenuto cercando di convincere Kyliann Mbappe, fuoriclasse e simbolo di quella nazionale, a rimanere nel Paris Saint-Germain, il club simbolo di Parigi. Perdere Mbappe significherebbe perdere anche una scommessa politica. Kyliann rappresenta il giocatore di colore proveniente dalla periferia che arriva nel gotha dello sport.

Lo sportwashing non è un fenomeno nuovo, ma inizia a preoccuparci ora che non abbiamo gli strumenti per contrastarlo. Nessuno ne ha parlato quando politici, imprenditori e uomini d’affari occidentali lo usavano per rendersi noti. Il salto culturale adesso però è troppo grande. Il pubblico non è pronto a vedere i suoi beniamini in un Paese così lontano culturalmente da quegli stessi sport.

L’assenza di cultura sportiva

A caratterizzare un elemento di novità è l’assoluta assenza di cultura sportiva di quei Paesi per gli sport in cui si è deciso di investire. Per il mondiale in Qatar si è addirittura parlato di persone pagate dal governo per riempire gli stadi e fingersi tifosi di questa o quella nazionale. Stadi che sono apparsi comunque vuoti rispetto agli standard di un evento di simile portata.

Allo stesso modo, non si può parlare di grande tradizione nel mondo del motorsport o del golf. L’unico obiettivo è quello di mettersi in mostra, possibilmente facendolo come vincenti. Certo, buona parte dell’opinione pubblica occidentale è contraria alle politiche che l’Arabia Saudita applica, ma un tifoso del Manchester City che ha iniziato a vincere tutto da quando Khaldun al Mubarak ha investito sulla sua squadra potrebbe dimenticarlo per un attimo. 

Difficile dire se lo sportwashing stia funzionando o meno. Ciò che è certo, tuttavia, è che il fenomeno non è nato nel Golfo. Nessuno si è mai strappato le vesti per investitori esteri europei o americani, anche se quando il loro ingresso sul mercato metteva a rischio l’equilibrio di campionati e competizioni. 

L’ingresso degli arabi è stato inizialmente visto con sospetto, attirandosi l’antipatia (e forse l’invidia) dell’opinione pubblica occidentale. Gli emiri hanno portato la competizione economica su un altro livello, e la paura di scoprire la propria squadra non più competitiva o il torneo del proprio Paese non più importante si è fatta sentire.

Dopo un periodo, però, sembra che le critiche legate a temi politici e al calpestio dei diritti umani si siano placate. 


Lo sportwashing sta funzionando?

Ora che siamo giunti ad un nuovo livello, con investimenti ancora più massicci, creazione di nuovi tornei e acquisto di sportivi di rilievo per i loro campionati, l’opinione pubblica è tornata a incendiarsi. E da qui la nuova centralità dello sportwashing nel dibattito.

I mondiali in Qatar hanno sollevato un vespaio di polemiche e portato alo scandalo dei lavoratori morti per costruire stadi a tempo record. Tuttavia, l’attenzione del mondo occidentale su questi temi potrebbe calare nel tempo, iniziando a dare per scontata la centralità degli stati del Golfo nello sport mondiale.
Il rischio, insomma, è che superata questa prima fase di rigetto e accusa, il fenomeno si normalizzi. 

Il filosofo Sudcoreano Byung-Chul Han – in particolare nel suo capolavoro “Infocrazia”, ma in tutte le sue opere – mostra come siamo avvolti in un turbine di informazioni che non leggiamo, ma che vogliamo consumare, sempre di più e sempre più velocemente. Non proprio l’ideale per tenere a mente un fenomeno a lungo termine come lo sportwashing

Difficilmente i tifosi smetteranno di seguire il proprio sport del cuore da un momento all’altro. Il giro di affari di sport come il calcio e la Formula 1 è enorme proprio grazie ai fan che acquistano biglietti, merchandising, abbonamenti per seguire le competizioni. 

La Jeddah Light
La Jeddah Light

Difficile pensare che qualcuno sia in grado di coordinare un grande boicottaggio capace di danneggiare il giro d’affari. D’altronde, i mondiali in Qatar sono stati tra i più seguiti di sempre.

Infine, bisogna tenere presente che lo sportwashing è solo uno degli strumenti che gli Stati del Golfo hanno iniziato ad utilizzare per ottenere maggior softpower. La narrazione che si vuole far passare è quella di un rinascimento culturale della regione a tutto tondo. 

Non a caso Matteo Renzi, una delle figure chiave della politica italiana degli ultimi anni, ha parlato di “Rinascimento Arabo” durante un suo viaggio in Arabia Saudita, attirandosi contro diverse polemiche. 

Per mostrare al mondo come stia avvenendo questo presunto Rinascimento, gli Stati del Golfo stanno investendo miliardi nella costruzione di città sfarzose, grattacieli incredibili ed edifici futuristici
Tutto per acquisire un softpower di cui per ora questi Paesi sembrano sprovvisti, necessario per far sentire la propria voce nel panorama internazionale. 

Ad oggi è molto difficile dire come si evolverà la situazione nei prossimi anni, certo è che l’attenzione e la consapevolezza che i consumatori occidentali sapranno mantenere intorno al tema dello sportwashing saranno gli elementi chiave per comprendere il futuro del fenomeno.


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