Dei popoli insediati in America Centrale nell’epoca precedente alla conquista degli spagnoli nel secolo XVI restano oggi numerose tracce, apprezzabili sia per la forte carica suggestiva, sia per l’inestimabile valore simbolico che esercitano nella definizione dell’identità del Messico contemporaneo. È precisamente il caso delle rovine di età precolombiana che possiamo osservare nella Plaza de las tres culturas (traduci: Piazza delle tre culture), uno dei principali punti d’interesse di Città del Messico.
È proprio in questa piazza che il 2 ottobre del 1968 fu scritta una delle pagine più drammatiche nella storia di questo Paese e del movimento sessantottino in generale, una sorta di Piazza Tienanmen messicana che sarebbe divenuta nota come Masacre de Tlatelolco, in cui persero la vita centinaia di studenti brutalmente assaliti dalle forze di polizia; in quella circostanza sarebbe rimasta gravemente ferita anche la giornalista italiana Oriana Fallaci.
I manifestanti, giovani, istruiti e soprattutto affamati di cambiamento, avevano scelto di protestare contro la corruzione e la mancanza di libertà nella Plaza de las tres culturas perché questa riflette, nella sua peculiare caratterizzazione, la composizione culturale di un Messico che si ritiene prodotto del sincretismo di tre macro-culture, come lo stesso nome della località suggerisce: alcune rovine azteche rimandano alla componente precolombiana, una chiesa cattolica al trascorso coloniale sotto gli spagnoli, e un gruppo di edifici moderni, realizzati nel corso del Novecento, alla modernità apportata dal giovane Stato messicano all’indomani della Rivoluzione.
Breve storia del Messico, dall’indipendenza ai giorni nostri
Il Messico aveva ottenuto l’indipendenza dalla Spagna nel 1821, ma verso la metà del secolo aveva perso la guerra contro gli Stati Uniti d’America e nel 1848, nel contesto della Pace di Guadalupe-Hidalgo, si era visto costretto a cedere all’ingombrante vicino una porzione considerevole del proprio territorio, corrispondente agli attuali Stati di California, New Mexico, Arizona, parte dello Utah, del Nevada e del Colorado.
L’esperienza del “porfiriato”, un periodo di 35 anni (1876-1911) durante i quali il Messico sperimentò la dittatura del generale Porfirio Diaz, apportò al Paese uno sviluppo notevole dal punto di vista economico rispetto agli altri Paesi dell’America Latina, ma al prezzo di una dipendenza pressoché totale dai capitali stranieri e in particolar modo statunitensi.
Inoltre, il liberalismo sfrenato sopra il quale Porfirio Diaz aveva costruito la propria politica economica aveva portato al ripristino di dinamiche feudali che si speravano superate con la fine della dominazione spagnola, perché i contadini più poveri, che non avevano i mezzi per mandare avanti le proprie attività, erano finiti a lavorare di fatto come servi nelle terre dei ricchi latifondisti. Questo e altri fattori concorsero allo scoppio della Rivoluzione nel 1910, che, alimentata dalla retorica socialista, chiedeva la fine dell’oppressione politica e l’applicazione di una riforma agraria che favorisse la redistribuzione delle terre e la nascita di una piccola proprietà terriera.
D’altro canto, quando trionfarono e si ritrovarono nella condizione di amministrare il nuovo Stato, i capi rivoluzionari esitarono di fronte all’applicazione delle riforme promesse e fecero un passo indietro, vuoi per la paura di intimorire gli investitori stranieri i cui capitali erano effettivamente così preziosi per il Paese, vuoi per l’incapacità di governare, o ancora per le allettanti comodità offerte dal modello di vita borghese e capitalistico, che abbracciarono prontamente.
La storia del Messico moderno inizia all’insegna del sentimento di decepción, la delusione scaturita nei cittadini dalla constatazione che gli ideali della Rivoluzione erano stati traditi, e che il sangue era stato sparso per niente – sentimento, questo, illustrato efficacemente dallo scrittore messicano Carlos Fuentes in opere come La región más transparente e La muerte de Artemio Cruz.
Per ben 71 anni, dal 1929 fino al 2000, il Messico vede sistematicamente al governo un solo partito, il Partido Revolucionario Institucional (Pri), il cui nome ossimorico contiene in sé l’evidente paradosso di un sistema in cui la classe politica che si era proposta di rivoluzionare completamente l’ordine precedente sceglie invece di istituzionalizzarsi, non facendo che conservarlo. Durante questi anni il Paese conosce un relativo sviluppo, ma anche un forte accentramento del potere nelle mani di pochi e una corruzione dilagante.
A partire dagli anni Settanta presero corpo due fenomeni destinati a diventare influenti su scala globale e a rendere il Messico un Paese di importanza primaria nello scacchiere internazionale: da una parte si assiste alla nascita e al rafforzamento di un importante flusso migratorio diretto dall’America Latina in generale verso la frontiere settentrionale con gli Stati Uniti, mentre dall’altra si verifica lo sviluppo del narcotraffico in un’area che fino a quel momento non era stata eccessivamente coinvolta.
I nuovi Cartelli della droga
Quest’ultimo si era sviluppato inizialmente in Colombia e risaliva il continente americano lungo l’asse verticale nord-sud in direzione della prima economia globale, nonché il maggior mercato in termini di consumatori di stupefacenti, gli Stati Uniti. L’occasione per la nascita di una forte criminalità organizzata nazionale si presentò negli anni ‘Ottanta’80, quando i narcos colombiani spostarono le rotte della droga dai Caraibi al Messico, favorendo l’ascesa di un criminale con un passato da agente della polizia giudiziaria federale, Miguel Ángel Félix Gallardo, soprannominato “El Jefe de Jefes” e capo del Cartello di Guadalajara. Costui divenne il primo messicano a fare da anello di congiunzione tra gli Stati Uniti e i cartelli colombiani nel periodo del loro massimo splendore.
Il momento in cui Gallardo iniziò a esigere come pagamento dei propri servizi non più un semplice compenso in denaro ma la possibilità di trattenere parte della merce segnò una svolta per la storia del narcotraffico in Messico, perché aprì la strada per il passaggio da trasportatori a distributori di questo e dei cartelli che sorsero imitandone l’esempio. Nel 1985 l’annientamento ad opera del governo degli Stati Uniti del potente Cartello di Guadalajara, macchiatosi del sequestro e dell’assassinio di un agente statunitense della Dea, favorì l’ascesa dei cartelli minori, che in breve tempo conquistarono molto potere ed entrarono in competizione tra loro.
Uno di quelli che riuscì ad emergere in questa fase e che ancora oggi possiede un’influenza decisamente elevata è il Cartello di Sinaloa o Cartello del Pacifico, posto attualmente sotto la guida del narcotrafficante Ismael Zambada García e dotato di ramificazioni in Europa e nel Pacifico. Tra l’altro, è passato recentemente alla cronaca per aver provocato violenti scontri con l’esercito e la polizia nello Stato di Sinaloa, scoppiati in seguito all’arresto di uno degli altri vertici del cartello, Ovidio Guzmán Lopez, figlio del celeberrimo “Chapo” Guzmán. Il suo arresto è stato interpretato come un “regalo” delle autorità messicane al presidente Biden che poco tempo prima, insieme al premier canadese Trudeau, aveva avuto un incontro con il presidente messicano Obrador per parlare di immigrazione e lotta al narcotraffico.
In generale l’azione dei cartelli si contraddistingue per l’uso della violenza estrema come strumento di terrore e controllo della società. La mancanza di una presa di posizione radicale da parte della società messicana nei confronti di un fenomeno che ormai supera visibilmente i confini nazionali può essere interpretata come effetto della paura del messicano medio, e di quella sua attitudine a farsi piccolo per evitare i problemi appresa durante secoli di dominazione coloniale spagnola e ribattezzata dall’intellettuale Octavio Paz, all’interno della sua opera El labirinto de la soledad, «l’invisibilità dell’indio». Tuttavia, è difficile stabilire se la mentalità del popolo messicano sia ancora così profondamente influenzata dal passato coloniale o se, piuttosto, le cause della sua pressoché totale inerzia vadano cercate altrove.
Gli Usa e la questione messicana
Per quanto riguarda la questione del flusso migratorio, è obbligatorio ricordarne l’importanza per le sorti del pianeta – addirittura un articolo di Lorenzo Di Muro per la rivista italiana Limes si intitola L’assimilazione degli ispanici è la priorità dell’impero –, dal momento che dalla capacità di assimilare i latinos, che attualmente costituiscono il 18,5% della popolazione (gli ispanici negli States sono pari a circa 60 milioni) dipenderà il primato globale della potenza nordamericana. Di questi, i messicani sono circa 37 milioni, pari a circa il 60% della popolazione ispanica e l’11% di quella di tutti gli States, dove l’élite Wasp sembra destinata nel 2045 a divenire prima minoranza con numeri attorno al 45%.
La bilancia della natalità, infatti, propende decisamente a favore degli ispano-americani, che sempre più spesso a partire dalla terza generazione hanno tagliato i rapporti con le proprie radici latinoamericane, identificandosi come statunitensi, mentre il 70% dei latinos nega di avere una cultura condivisa, soffocando sul nascere qualsiasi velleitario riferimento a una cultura «panispanica» da parte di movimenti politici di sorta.
Tali dinamiche socioculturali sono riscontrabili nell’analisi del voto alle ultime presidenziali, che vede i latinos sempre più spesso interessati a questioni di natura economica e lavorativa che ad appelli di carattere etnico-identitario, finendo con il votare in percentuali non troppo diverse Democratici come Repubblicani.
Per gli Stati Uniti la questione messicana è una herida abierta, utile o dannosa a seconda dei punti di vista, e non è da escludere che per conoscere la direzione che il Messico prenderà nei prossimi anni bisognerà attendere proprio il calcolo finale di Washington. Gli Stati Uniti, infatti, dovranno stabilire se rientri veramente nei loro interessi contribuire alla ricerca di una soluzione per la situazione di un Paese che è fonte di così grande instabilità per la loro politica interna, o se invece, come è stato finora, risulterà più conveniente tenere alla frontiera uno Stato allo sbaraglio in completa balìa di se stesso.
Un attore che non sia mai in grado di minacciarne l’egemonia nel continente e dunque le fondamenta della loro supremazia globale, ma che al tempo stesso li aiuti a scongiurare il tracollo demografico con i suoi flussi migratori.
Foto in evidenza: Esparta Palma – originally posted to Flickr as Mexico Flag / Bandera de Mexico, CC BY 2.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=4675586