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Taiwan non è l’Ucraina: cosa Taipei deve imparare e cosa deve temere

Agli USA serve l'isola, meno l'Ucraina: differenze e analogie di due conflitti che si parlano

Ripubblichiamo in occasione delle tensioni tra Cina e Stati Uniti in merito alla visita della speaker del congresso Nancy Pelosi sull’isola di Taiwan.

La geopolitica non è una scienza esatta. Non perché priva di leggi fondamentali, ma in quanto valida in maniera ondulatoria. Ciò che accade in un dato punto si riverbera e viene recepito alla luce di lenti antropologiche, che danno vita a percezioni e calcoli differenti in base alla collettività osservante. L’invasione russa dell’Ucraina è per noi europei la (ennesima) notifica che il mondo che abbiamo sognato e della cui esistenza ci siamo convinti in un trentennio è in via di liquidazione.

Per gli Stati Uniti è bega che lambisce a stento in confini dello spazio decisivo. Vista dal Cremlino è disperata ricerca di quel minimo di profondità strategica necessaria a non scomparire e dalle trincee di Kiev è affannosa lotta per la sopravvivenza. Per i terroristi kashmiri una notizia che lascia indifferenti e per l’Australia un’occasione per esprimere la propria solidarietà al fronte occidentale. E così via. Gli esempi sono uno per ogni gruppo umano del pianeta.

Ma cosa è questa guerra per Taiwan? Provincia ribelle del Dragone, esistente nel terrore che Pechino prima o poi venga a regolare i conti come ormai promette esplicitamente. Qui vedere l’orso russo che ghermisce la piccola Ucraina – una manciata di mesi dopo la rocambolesca fuga occidentale da Kabul – deve avere un effetto psicologico profondo. Di quelli inconcepibili per chi non è nato e cresciuto all’ombra di un vicino ostile, ingombrante ed estremamente più capace militarmente.

Taipei però non è Kiev. La maschera indossata è la stessa, quella di presidio del mondo libero nelle fauci del nemico autoritario. La centralità strategica nei disegni degli alleati diametralmente opposta: la prima è fondamentale, la seconda sacrificabile. Né la geografia né la storia, come il tessuto industriale e le capacità belliche, segnano punti di collegamento tra l’Ucraina e Taiwan.

Eppure, esiste la possibilità che l’invasione russa possa impercettibilmente alterare le equazioni anche dall’altra parte del mondo, in quello stretto dove si gioca la partita del secolo tra Washington e Pechino. Al contempo, la guerra di Putin offre molto materiale su cui gli strateghi taiwanesi devono riflettere e studiare.

Taipei non è Kiev

Prima differenza fondamentale. Per gli Stati Uniti Taiwan è perno insostituibile nella strategia di contenimento della Repubblica popolare cinese. L’Ucraina è un asset “offensivo”, una bomba inesplosa alle porte di Mosca con cui, a piacimento, poter destabilizzare la Federazione russa. Si trova al di là della linea rossa della nuova cortina di ferro, costruita su quella trincea di paesi NATO che dalle repubbliche baltiche arriva fino al Mar Nero con la Romania. Quella linea di contenimento che è la frontiera del cruciale spazio europeo e mai l’America permetterebbe che i russi la insidiassero.

Tra Taiwan e la Cina, al contrario, c’è solo il mare. L’isola è uno dei punti cardinali di quella collana di isole e penisole che recinge nei propri mari domestici la Cina. Una serratura che le impedisce il libero accesso al Pacifico e dunque lo status di potenza marittima, requisito insostituibile per sfidare l’egemonia americana.

Si tratta di un nemico ben più pericoloso della Russia, che qualora prendesse il mare avrebbe le carte in regola, a partire dal potenziale economico, per competere realmente nella partita globale.

In caso di un assalto cinese sarebbe poi più facile, oltre che più conveniente, intervenire per una potenza come gli Stati Uniti. In primis Washington gode di una cornice normativa più strutturata per quel che riguarda le forniture militari all’esercito di Taipei. Una porta lasciata aperta con l’accordo del 1979, con cui gli USA, pur riconoscendo la sola Cina continentale, si riservavano di “fornire a Taiwan sistemi d’arma difensivi” e “mantenere la capacità degli Stati Uniti di opporsi all’uso della forza o altre forme di coercizione che mettano a rischio la sicurezza del popolo taiwanese”.

“Ambiguità strategica” tradotta nei fatti, dato che Washington non ha mai smesso di armare Formosa – che tutt’oggi si affida per la maggior parte a sistemi americani, come l’ombrelloantimissile Patriot per la cui manutenzione il Congresso americano ha da poco approvato una vendita da 100 milioni di dollari.

Sostegno che è andato come prevedibile ad aumentare insieme alle tensioni con la Cina e che ormai include senza imbarazzi anche sistemi offensivi, a partire dalle corpose partite di caccia F-16, acquisite per circa 9mld di dollari dall’aviazione taiwanese.

Non c’è paragone tra gli aiuti letali che sono stati forniti in fretta e furia alle forze armate ucraine nel corso degli ultimi mesi di tensione. Lontano dai riflettori, l’Occidente arma Taiwan dal 1946.

Geografia del soccorso

Le stesse capacità militari dell’isola sono di scala diversa. Nonostante una popolazione di appena 23 milioni di abitanti, Taipei può permettersi di spendere 11,5 miliardi di dollari per la propria Difesa, con l’intenzione (già tradotta in legge dal parlamento) di toccare i 17 miliardi per l’anno corrente. Il governo di Kiev è riuscito ad arrivare a quota 6 miliardi solo nel 2020, nonostante l’incremento continuo a partire dalla crisi di Maidan.

L’isola conta inoltre su un complesso industriale sviluppato, capace addirittura di dare vita a una classe indigena di sottomarini.

La geografia segnerebbe infine considerazioni diverse da parte degli alleati che stessero valutando di intervenire in caso di conflitto aperto. Come ai tempi della guerra fredda, se NATO e Federazione russa incrociassero le spade (oggi in Ucraina, all’epoca lungo il passo di Fulda), non ci sarebbe nessuna barriera geografica in grado di impedire l’escalation.

La guerra si tramuterebbe in uno scontro di larghissima portata, segnato dall’utilizzo di divisioni corazzate e bombardamenti indiscriminati – che interesserebbero anche le città, luoghi cruciali nelle strategie di difesa e attacco delle forze in campo. Escalation praticamente scontata e quasi sicuramente nucleare, come già previsto nei piani di entrambe le potenze ai tempi della guerra fredda e come ha confermato nuovamente Vladimir Putin, con le sue “conseguenze mai viste prime”.

Un’ipotetica difesa di Taiwan sposterebbe il campo di battaglia tra le onde. Sarebbero missili, bombe e razzi a farla da padrone, con maggiori possibilità che il conflitto resti circoscritto. Gli Stati Uniti, qualora decidessero di intervenire, lo farebbero per tramite dell’aviazione e della marina – tenuta il più possibile a distanza di sicurezza. Il Dragone reagirebbe bombardando navi e installazioni americane nel Pacifico. I costi sarebbero enormi, ma nessuna delle parti in causa vedrebbe la propria sopravvivenza messa a rischio.

Questione di armi

Tra le cose che a Taiwan stanno guardando con maggiore interesse c’è sicuramente la lezione militare che stiamo vedendo sul campo. Le forze ucraine stanno imponendo all’orso russo costi esorbitanti in termini di vite e materiale. Lo stanno facendo anche grazie agli aculei affilati che le potenze occidentali hanno fatto pervenire in fretta e furia nelle mani dei difensori di Kiev. In particolare sono gli economici sistemi d’arma spalleggiabili, antiaerei e anticarro, che oggi reclamano un tributo sanguinoso alle forze della Federazione.

Aculei di cui dispone anche Taipei, inseriti in quella che gli analisti militari chiamano “strategia del porcospino”. Incapaci di combattere con Pechino ad armi pari, le forze taiwanesi intendono costruire un sistema di difesa a strati, imperniato su asset leggeri, manovrabili e poco costosi, che imponga al Dragone un costo più alto di quello che possa permettersi.

Le fortificazioni marittime sarebbero assicurate da centinaia di mine sommerse e, secondo alcuni analisti, dalla possibilità di incendiare tratti degli oleodotti sommersi per creare delle barriere fiammeggianti in corrispondenza dei punti di sbarco. In un’analisi apparsa su The Diplomat viene stimato che la Repubblica Popolare avrebbe bisogno di mobilitare tra 1,4 e 2,2 milioni di uomini per avere margine di successo accettabile nell’invasione, schierando al contempo “migliaia o addirittura decine di migliaia” di vascelli civili e militari per assicurare lo sbarco. Un simile numero di navi, da guerra ma anche petroliere, portacontainer, pescherecci, ecc. servirebbe sia a trasportare la massa di invasione che a fornire bersagli “falsi” alle difese costiere.

La condizione imprescindibile perché Taiwan possa sperare di resistere ad un simile dispiegamento di forze è che la sua capacità missilistica e antimissilistica non venga compromessa. Per farlo la strategia – ancora una volta rimarcata pubblicamente dalla leader Tsai – è quella di moltiplicare i punti di fuoco, renderli mobili e occultabili e facilmente riparabili, in modo da non dover mai interrompere il tiro contro le forze della RPC.

Difficile ma non impossibile se si considera che nel ’91 in Iraq la coalizione occidentale non riuscì a distruggere nessuna delle batterie antiaeree di Saddam nonostante 90.000 tonnellate di bombe e che all’aviazione Nato servirono due mesi per mettere a tacere 3 delle 22 batterie antiaeree della Serbia – a dimostrazione dell’efficacia di falsi bersagli e nascondigli anche nell’era delle bombe guidate.

Per fare questo Taiwan si è dotata di un impianto missilistico multistrato. Si passa dai sistemi di produzione americana, Patriot, Patrior MSE e Harpoon – i primi intercettori, i secondi offensivi antinave. – ai sistemi di razzi ad alta mobilità M142, la cui gittata di 300km permette di estendere la copertura a quasi tutte le isole taiwanesi – anche quelle antistanti alle coste cinesi. Rimarranno in servizio anche le batterie Thunderbolt-2000 MRLS, con gittata di 45km e pensate esclusivamente per la difesa anfibia.

A completare il quadro della difesa i lanciarazzi a spalla in dotazione alle truppe, recentemente dispiegati anche sulle isole a sud di Taiwan. Gli stessi javelin e stinger che i soldati russi stanno sperimentando sulla propria pelle.

C’è poi un fattore orografico determinante. In totale sono 14 le spiagge su cui la Marina cinese può tentare lo sbarco. Sulla maggior parte di queste torreggiano le catene montuose dell’isola. Più di 250 punti di Taiwan si elevano oltre i 3000 metri di altezza. Le alture rappresentano una difesa naturale dagli attacchi aerei e brulicano di punti di fuoco e fortificazioni in cemento armato, oltre ad accogliere hangar nascosti per l’aviazione. Gli invasori sarebbero costretti ad effettuare lo sbarco – in qualsiasi punto decidessero di toccare terra – sotto il tiro dei difensori asserragliati tra le montagne.

Se la Cina decidesse ad esempio di sbarcare nella spiaggia di Linkou, vicino Taipei, i difensori avrebbero buon gioco a sparare dal pianoro di Linou (sulla destra, 250m), dal picco Guanyin (sopra la spiaggia, 650m) e del picco Yangming (sulla sinistra, 1000m). Sia le spiagge che i percorsi che da queste conducono agli obiettivi da occupare sono state studiate con cura dagli strateghi taiwanesi. Tunnel sotterranei conducono in prossimità delle coste, che in caso di scontro sarebbero disseminate di trappole, filo spinato e ostacoli di vario genere.

Cruciale sarà anche il fattore sorpresa. Le isole taiwanesi antistanti al Fujian sarebbero spazzate via rapidamente, ma la loro posizione rende quasi impossibile alla Cina comunista organizzare l’invasione, preparare lo sbarramento missilistico e approntare una flotta gigantesca senza che le forze taiwanesi entrino in allerta. Inoltre, l’assalto anfibio è strettamente legato alle condizioni meteorologiche del canale, favorevoli allo sbarco nei soli mesi di ottobre e aprile.

Fattori che rendono il nostro scenario ipotetico estremamente differente da quello ucraino e che da soli basterebbero ad allontanare il parallelismo che tanto spesso vediamo rimbalzare sui giornali in questi giorni. Per essere schietti, appena un centinaio di chilometri di pianura separano Kiev dal confine col nemico. Nessun “potere frenante dell’acqua” (Mearsheimer), nessuna barriera geografica, solo le “mura di uomini” a tenere il nemico fuori dalla porta di casa.

Mai fidarsi delle sanzioni?

Anche le sanzioni meritano qualche considerazione. Gli elementi principali che emergono dalla pioggia di sanzioni occidentali sono essenzialmente due. Primo: nessuna azione cinetica sarà mai arrestata da una misura economica. A maggior ragione se consideriamo che l’aggressore avrà avuto modo di valutare l’impatto delle rappresaglie finanziarie in anticipo. Secondo: il costo economico che ricade inevitabilmente anche sui sanzionatori.

Veniamo al primo aspetto. Se una potenza decide di aggredire militarmente un Paese limitrofo, nello spazio di pochi giorni si troverà a combattere una guerra convenzionale sul suolo nemico. A questo punto, come nel caso odierno, altri attori vicini all’aggredito impongono sanzioni economiche. Queste non si configurano come un argine al dilagare delle truppe nemiche ma come una rappresaglia ai danni dell’apparato industriale e del tenore di vita della popolazione.

In nessun modo possono colpire le forze dispiegate sul territorio, a meno che gli attaccanti non abbiano messo in contro un’operazione di lunghissimo periodo – caso che non riguarda né l’Ucraina né un ipotetico coup de man a Taiwan. Per chi deve difendere le proprie case sotto una pioggia di proiettili, il fatto che l’economia dell’attaccante sarà duramente colpita nel medio periodo è una consolazione magra, una variabile tutto sommato trascurabile nell’equazione del conflitto.

Nel brevissimo termine, vale a dire la finestra in cui si svolgerà l’operazione militare molto probabilmente, l’attaccante sarà preparato a gestire la guerra finanziaria. Mosca potrebbe ad esempio aver stimato a ribasso la reazione economica dell’Occidente, ma sarebbe stata folle a non metterla in conto. Le riserve in oro e argento, i fondi sovrani e l’implementazione di una rete internet nazionale sono lì a dimostrarlo.

Il secondo aspetto riguarda i costi delle sanzioni per l’economia globale. Oggi siamo in una fase in cui le misure economiche non hanno ancora esplicitato il loro potenziale distruttivo. Nonostante questo, i rincari energetici e l’impennata di alcune materie prime – nichel e grano – e prodotti – fertilizzanti, olio di semi – sono già reali. E stanno colpendo tanto i sanzionatori quanto i sanzionati.

L’Europa (in maniera minore gli Stati Uniti) soffrirà in maniera dolorosa il decoupling con la Federazione russa, anche qualora gli idrocarburi restassero fuori dal paniere sanzionato.

Ora riportiamo una situazione come quella di oggi sul nostro ipotetico conflitto per Taiwan. La Cina potrebbe soffrire maggiormente le sanzioni occidentali di quanto non stia facendo la Federazione russa. Faglie strutturali, disponibilità della popolazione a soffrire per l’avventurismo geopolitico e la dipendenza dal mare sono fattori di estrema differenziazione.

Questo non toglie che il solo export del Dragone (2600 miliardi di dollari) è superiore all’intero prodotto interno lordo della Russia. Il contraccolpo rischierebbe seriamente di mandare all’aria la globalizzazione, costringendo i Paesi europei (che con Pechino fanno affari d’oro) a misure estreme come la soppressione del sistema di welfare o il razionamento dei beni di prima necessità. Contemporaneamente, il prezzo dei beni voluttuari schizzerebbe alle stelle.

A Taiwan, intanto, si continuerebbe a sparare. Il Dragone sarebbe colpito al cuore dalle sanzioni, specie qualora incorresse la chiusura degli stretti da cui transita il petrolio che alimenta la fabbrica cinese. Le riserve di materie prime e valuta estera che la Cina sta accumulando servirebbero a tenere in piedi l’apparato produttivo il tempo di concludere le operazioni militari.
Il fato della globalizzazione sarebbe deciso dalla guerra economica. Quello dell’isola dalla guerra degli uomini. E questo assunto deve essere ben chiaro ai difensori di Taipei.

Taiwan non deve “ammalarsi” di Afghanistan

Veniamo alla domanda fondamentale: in che modo l’invasione russa può colpire un’isola a decine di migliaia di chilometri di distanza?

Il tutto ha a che fare con la percezione della propria sicurezza. Sentire profondo del Paese, incline ad essere alterato più dalle narrative che dai mutamenti strategici. Sarà qui che il Dragone tenterà di incassare i dividendi del conflitto ucraino.

Il rischio è che presso i satelliti degli Stati Uniti, gradualmente e a partire dai più piccoli, si diffonda quella che potremmo definire “sindrome afghana”. I soci di minoranza dell’impero americano potrebbero ammalarsi di sfiducia, convincendosi, sulla scia delle figuracce internazionali di cui l’Afghanistan è massima espressione, non solo del prossimo declino dell’egemone ma anche della sua propensione a servirsi degli alleati quando necessario e abbandonarli al momento opportuno.

Le parole durissime di Zelensky contro la NATO suonano da monito. Con la sua retorica infuocata il presidente ucraino vuole colpire gli Stati Uniti nell’orgoglio. Insiste sul fatto che l’Occidente sia troppo debole per imporre la chiusura dei cieli dell’Ucraina, sperando che questo, in un moto di alterigia, risponda in maniera istintiva.

Una NATO che per Zelensky non solo è debole ma disonesta. All’ennesima conferma che nessuno avrebbe appoggiato l’implementazione di una no-fly zone, il presidente ha reagito sbottando: “Tutto quello che l’alleanza è stata in grado di fare oggi è stato procurare 50 tonnellate di diesel per l’Ucraina. Forse sono quelle con cui bruciare il Memorandum di Budapest” – riferimento all’accordo del 1994 in cui le principali potenze dell’epoca (tra cui USA e Russia) si fecero garanti dell’integrità territoriale della neonata Ucraina.

La dottrina delle “tre guerre” elaborata nel 2003 dalla Repubblica popolare cinese insiste proprio all’interno di questa cornice. Evoluzione in salsa mandarina dei concetti di guerra asimmetrica, la dottrina punta a stabilire la superiorità del Dragone modellando l’opinione e la psicologia pubblica, il contesto politico e il frame normativo.

Riprendendo il pensiero di Sun Tzu, la Cina intende prima di tutto minare la volontà del nemico a combattere, convincendolo che un confronto lo vedrebbe inequivocabilmente sconfitto. In questa definizione allargata di conflitto tutto può essere sfruttato per gli interessi della RPC. Dai media che leggono nella crisi ucraina – perché imbeccati da Pechino o perché vittime anch’essi della manipolazione – il disfacimento dell’egemonia americana, alle prove di forza della marina sinica nelle acque del Pacifico.

Non è un caso che nei momenti concitati dei primi giorni dell’operazione russa navi cinesi siano tornate a farsi vedere nelle acque contese dello stretto e i jet abbiano ripreso a violare la zona di identificazione dell’isola.

Lo scopo è convincere Taipei che Zelensky stia dicendo il vero e che nessuno correrà a salvarli nel momento del bisogno.

Approccio rischioso, che potrebbe rivelarsi un boomerang per Pechino. Se la manipolazione riesce, l’isola e i suoi difensori ne usciranno fiaccati nel morale – e la resistenza ucraina sta ricordando al mondo quanto possa fare da sola la volontà a non cedere. Ma qualora la guerra di propaganda risulti in fallimento, l’opinione pubblica taiwanese ne uscirebbe più radicalmente convinta delle proprie possibilità e del posizionamento anticinese.

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