Da diversi anni ormai, negli States, parlare di immigrazione significa parlare di Triángulo Norte. Con tale espressione si fa normalmente riferimento a una regione dell’America Centrale collocata ai piedi del Messico che comprende gli Stati di El Salvador, Guatemala, Honduras, dai quali i principali flussi migratori diretti verso il confine meridionale degli Stati Uniti.
Alle soglie del nostro millennio, così come per gran parte del secolo scorso, la netta maggioranza dei migranti che tentavano di varcare illegalmente la frontiera era di origine messicana; oggi, invece, i centroamericani provenienti dagli Stati citati sono in continuo aumento e rappresentano un serio problema per Washington, sul quale democratici e repubblicani saranno chiamati a confrontarsi in vista delle presidenziali del 2024.
Alcune percentuali indicative dell’entità del fenomeno sono quelle relative alle detenzioni della polizia statunitense alla frontiera, la forma normalmente impiegata dal governo degli Stati Uniti per misurare l’immigrazione. Nel 2008 più del 90% dei detenuti dalla polizia statunitense alla frontiera era di origini messicana.
Nel 2019, invece, i centroamericani costituivano il 74% delle detenzioni, e questo perché il Triángulo Norte abbonda di cause che favoriscono la migrazione, come l’estrema povertà, la mancanza di opportunità lavorative, la pericolosità e la violenza.
Come sono nate le attuali difficoltà della regione?
Se oggi parliamo di Triángulo Norte, è anche in virtù di un processo di integrazione economica che ha coinvolto i tre Stati di El Salvador, Guatemala e Honduras a partire dal 1991 con la firma di un accordo di libero scambio tra i primi due, nel quale sarebbe entrato anche il terzo l’anno successivo. Tuttavia, le dinamiche che contribuiscono alla tragica omogeneità della regione vanno ben al di là dell’aspetto economico, e affondano le radici nella corruzione del sistema politico, il potere delle organizzazioni criminali, l’estrema povertà e le crisi sanitarie e ambientali. Oggi il Triángulo viene considerato una delle zone più letali al mondo, con numeri di morti violente superiori addirittura alle zone di guerra.
Tra gli anni ’80 e ’90 furono firmati una serie di trattati di pace, come l’Acuerdo de Paz regional de Esquipulas del 1987, che posero fine a guerre particolarmente cruente, le quali affliggevano la regione da anni e, talvolta, da decenni (nel caso del Guatemala la guerra civile era iniziata nel 1960). Il primo effetto di questi accordi fu una rapida diminuzione della violenza omicida; un paese come El Salvador vide il tasso di omicidi calare bruscamente dai 140 ogni 100.000 abitanti all’inizio degli anni ’90 ai 37,8 nel 2001.
Tuttavia, i regimi democratici che si instaurarono all’indomani della firma dei trattati di pace si dimostrarono generalmente instabili e complessivamente incapaci di far fronte alle nuove forme di violenza e corruzione sorte dalle ceneri dei conflitti precedenti. Infatti, se da una parte fu ripristinato ovunque lo Stato di diritto, dall’altra ebbero luogo numerosi processi di amnistia per i crimini commessi durante la guerra, che produssero un clima generalizzato di impunità.
A partire dagli anni Duemila, responsabili militari, imprenditori e politici si invischiarono progressivamente con le reti criminali legate al narcotraffico, che trovarono così un’occasione per infiltrarsi negli apparati statali e influenzare la vita politica. Parallelamente, i tassi di omicidi tornarono a crescere e si assistette a un inasprimento di forme di violenza inedite, come sequestri, furti ed estorsioni.
In tutti questi Paesi, la violenza non si era estinta, ma aveva cambiato volto e autori: da una parte, non si svolgeva più nelle zone rurali, come durante la guerra civile, ma in quelle urbane; dall’altra, non era più perpetrata da attori come le Forze Armate, la polizia e le squadre di guerriglia, bensì da sicari al soldo dei narcotrafficanti o membri di bande criminali internazionali, detti mareros. In questo contesto trovarono la morte anche numerosi innocenti, e soprattutto quanti si erano battevano per costruire un futuro diverso, come sindacalisti, attivisti ambientali, giornalisti.
La grande insicurezza sociale e la violenza della criminalità non sono gli unici motivi dietro l’imponente esodo dei migranti centroamericani dai loro paesi d’origine. Negli ultimi anni, infatti, il Triángulo Norte si è ritrovato ad affrontare altre due grandi crisi, una sanitaria, legata alla pandemia di COVID-19 e ai dolorosi strascichi economici che si è lasciata dietro, e una climatica. Relativamente a quest’ultima, nel 2020 ha avuto luogo la stagione di uragani più intensa nella storia della regione, con un totale di 30 tormente di cui 13 classificate come uragani.
Il sostegno della comunità internazionale, impegnata ad occuparsi della crisi pandemica in casa propria, è stato praticamente nullo. Secondo i dati dell’Ufficio delle Nazioni Unite per gli affari umanitari, in un rapporto risalente alla fine del 2020, in Honduras ci sono state 4,5 milioni di persone danneggiate dagli uragani Eta e Iota (i due più devastanti), 1,8 milioni in Nicaragua, 1,8 milioni in Guatemala.
Queste dinamiche nel loro complesso hanno prodotto un notevole aumento di ondate migratorie dai Paesi del Triángulo Norte, attraverso il Messico, in direzione degli Stati Uniti e talvolta anche del Canada; ad esempio, la percentuale di popolazione che abbandonava lo Stato di El Salvador alla ricerca di migliori condizioni di vita è cresciuta dal 16% nel 2000 al 35% nel 2017. Il medesimo processo, anche se in scala ridotta, ha riguardato Honduras e Guatemala.
Per la verità, anche un quarto Stato collocato ai piedi del triangolo, e cioè il Nicaragua, è stato interessato dal medesimo fenomeno, ma in virtù della sua posizione geografica i suoi abitanti sono emigrati in uguali quantità verso gli Stati Uniti a Nord e verso la vicina Costa Rica a Sud, caratterizzata da condizioni di vita non eccellenti ma decisamente migliori.
Vero è che, per quanto riguarda El Salvador, un nuovo capitolo nella storia del Paese è stato aperto dall’ascesa al potere della controversa figura di Nayib Armando Bukele Ortez; costui, eletto presidente nel 2019, gode di una grande popolarità in patria, sebbene sia stato definito da alcuni un dittatore alla stregua di altri uomini forti latinoamericani in virtù di misure altamente restrittive adottate in questi anni. Ad ogni modo, la principale ragione del suo successo consiste nella lotta indefessa contro la delinquenza dei mareros, che ha portato all’incarcerazioni di molti criminali e a un drastico calo degli omicidi.

La politica migratoria degli Stati Uniti
Le ultime amministrazioni statunitensi si sono occupate della questione in maniere anche molto divergenti e non sempre coerenti. Durante il suo secondo mandato, Obama ha lanciato un programma di politica estera noto come Alliance for Prosperity (A4P) pensato nei termini di un approccio holistic per occuparsi della situazione nella sua globalità.
I dossier interessati erano molti, dal rafforzamento del sistema giudiziario al sostegno alle agenzie impegnate nella lotta al narcotraffico, ma anche il sostegno finanziario allo sviluppo economico e sociale complessivo della regione. Tuttavia, tale approccio è anche alla base della principale critica mossa dagli oppositori, che lo hanno giudicato eccessivamente ampio e incapace di produrre risultati tangibili riscontrabili in una diminuzione dei flussi.
L’amministrazione Trump, invece, ha promosso un piano intitolato U.S. Strategy for Central America (Ussca), che nei confronti della regione mantiene in sostanza l’approccio che era stato dell’amministrazione precedente, ma mira in particolar modo a stringere accordi bilaterali con gli stati del Triangulo per la gestione dei rimpatri ed evitare che i migranti oltrepassino il confine meridionale degli States.
La famosa politica trumpiana di “zero tolleranza” si è concretizzata in un inasprimento delle pene per quanti oltrepassavano illegalmente il confine con il Messico e nell’implementazione dei Migrant Protection Protocols (Mpp), in virtù dei quali gli stranieri che ambiscono ad entrare negli Stati Uniti senza la dovuta documentazione devono attendere in territorio messicano per la durata dei procedimenti legali. È la politica del Remain in Mexico, conosciuta nei Paesi ispanofoni come Quédate en México.
Inoltre, gli aiuti economici alla regione del Triángulo Norte, giudicati inefficaci, hanno subito nel corso del tempo un taglio del 75%; sospeso fu anche il Temporary Protected Status per gli abitanti di Honduras ed El Salvador, un programma in virtù del quale i migranti provenienti da Paesi in estrema difficoltà potevano vivere e lavorare negli States per un periodo limitato di tempo in maniera agevolata. Tuttavia, nonostante l’immensa quantità di misure, la vera ancora di salvezza che ha permesso a Trump di salvare la reputazione e tenere effettivamente sotto controllo l’emergenza migratoria è stato il ricorso al famigerato Titolo 42 durante l’era covid, decisione che presenta tanti vantaggi quante problematicità.
Trump è stato accusato di disinteressarsi delle sorti della regione in un periodo in cui la Cina ha invece aumentato significativamente la propria influenza nell’area, investendo due miliardi di dollari in progetti infrastrutturali e facendo pressione su El Salvador affinché recidesse i legami diplomatici con Taiwan.
L’amministrazione Biden ha cancellato molte iniziative del proprio predecessore alla Casa Bianca, come gli accordi bilaterali o l’esclusione dei migranti provenienti dal Triángulo dal Temporary Protected Status, ma soprattutto ha lanciato un programma di quattro miliardi di dollari per l’America Centrale finalizzato a mitigare le cause alla radice dei flussi. Numerose le polemiche per la prosecuzione, fino a pochi mesi fa, del ricorso al Titolo 42 nella gestione della situazione al confine con il Messico, mentre numerose procedure burocratiche hanno fatto sì che gli altrettanto controversi Migrant Protection Protocols siano stati anch’essi mantenuti.
La questione migratoria sarà sicuramente uno dei temi caldi sui quali hanno già iniziato a scontrarsi i candidati di parte democratica e repubblicana in vista delle elezioni. D’altro canto, sono innegabili le responsabilità statunitensi dietro la situazione attuale di questi Paesi.
Sono fin troppo proverbiali le “repubbliche delle banane” che, nella prima parte del secolo scorso, Washington ha sostenuto per tenere sotto controllo l’America Centrale e difendere in questo modo gli interessi delle proprie aziende; pur di tenere al potere governanti compiacenti, non hanno fatto a meno di rovesciare leader di sinistra come Jacobo Árbenz Guzmán in Guatemala o di appoggiare dittatori come il nicaraguense Anastasio Somoza negli anni ’60 e ’70. Analogo discorso può essere fatto per El Salvador, dove i guerriglieri hanno avuto per un periodo anche il sostegno di Cuba e Urss, e poi Guatemala e Honduras.
Il Triángulo Norte sia una regione che, per motivi diversi rispetto a ieri, continua intensamente a interessare la politica degli Stati Uniti. Questi devono dunque capire come aumentare la propria influenza sulla regione in modo da non cedere il passo a Pechino, ma al tempo stesso difendersi dalle minacce che può rappresentare per la propria sicurezza nazionale, dai flussi migratori alla diffusione del narcotraffico.
Foto in evidenza: “El Triángulo norte de Centroamérica” is licensed by CC BY-SA 4.0