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Lettera dall’Ucraina: come vive un paese in guerra

Impressioni dall'ovest, dove la guerra è una responsabilità, tra ricordo dell'assedio e culto del trofeo

Un'obice semovente da 152mm Msta-S russo distrutto, esposto a Kiev

Kiev. Come vive un paese in guerra? La domanda che mi porta in Ucraina – imparo dopo appena un paio di giorni dal valico della frontiera – non ha una sola risposta. Il conflitto qui è un gradiente. Un velo disteso sul paese praticamente trasparente a ovest che si fa rosso scuro mano a mano che ci si avvicina ai punti di attrito principali.

Vivere a Leopoli

Arrivare a Leopoli sconvolge i preconcetti. La spettacolarizzazione del conflitto, la ricerca forsennata dalle immagini più truci da gettare nel flusso di notizie, ci lascia con l’idea che l’Ucraina tutta versi nelle condizioni del più martoriato dei paesi mediorientali – Kabul 2001 o Baghdad 2003, scegliete voi. Ad aspettare fuori dalla stazione dei treni però ci sono locali aperti, famiglie che passeggiano e il Balletto del Solomija Krušel’nyc’ka – il teatro dell’opera che resta aperto ai turisti, come se fossimo in una qualsiasi città europea.

Qui la guerra è una responsabilità. La città austroungarica è il diaframma tra l’Ucraina e il mondo esterno, la porta più importante per entrare nel paese grazie al collegamento con gli aeroporti polacchi di Cracovia (civile) e Rzeszów (militare). Una responsabilità che si sostanzia nell’accoglienza dei profughi dal resto del paese – centinaia di migliaia – e nel coordinamento delle attività umanitarie. A ricordare alla cittadinanza che si è in guerra, oltre alle sirene antiaeree (a cui in pochi danno credito) e al coprifuoco, sono i simboli del paese e degli eventi bellici.

Dalle trappole anticarro e i sacchi di sabbia – assolutamente privi di scopo a centinaia di chilometri dal fronte – presso edifici istituzionali ai murales per i difensori di Azovstal, passando per la coda di un caccia russo abbattuto e i proiettili disinnescati esposti nei locali di movida: la volontà è quella di dare corpo allo stato di guerra affinchè i cittadini partecipino allo sforzo, senza dimenticarsi che i russi sono ancora lì nonostante i missili da queste parti arrivino sempre più di rado.

Leopoli, murales celebrativo del reggimento Azov

L’assedio di Mariupol qui in Ucraina è già un mito. Su moltissimi edifici sono esposti enormi manifesti che chiedono la liberazione dei combattenti. Chiedo timidamente alla mia guida italiana cosa pensa la cittadinanza degli uomini del reggimento Azov. L’unità di nazionalisti attiva fin dal 2015 nella guerra in Donbas di cui in Italia si è parlato e scritto tanto. «Qui sono eroi», mi risponde. Non posso garantire che tutti la pensino a questo modo – e se è vero che il sentimento antirusso è una costante di tutte le persone con cui parlo, sono in molti che non hanno in simpatia il presidente Zelensky – ma la quantità di simboli e rimandi che vedo decorare le città è un indicatore eloquente.

Kiev: al centro dello sforzo

A Kiev, dove mi trovo ora, la sfumatura è ancora diversa. Anche qui le bombe di Mosca arrivano molto raramente. Al netto di alcuni strike importanti dall’inizio del conflitto – come quello in occasione della visita del presidente dell’Onu Guterres – la città appare intatta. L’approccio al conflitto qui però inizia ad assumere tratti operativi. I gruppi di soldati che camminano per strada sono una presenza fissa e, soprattutto, sembrano equipaggiati davvero per un conflitto.

Se a Leopoli gli uomini che si incontrano spesso e volentieri non indossano nemmeno l’attrezzatura antiproiettile, nella capitale li vediamo in panoplia completa, sulle loro armi – alcune molto moderne – campeggiano equipaggiamenti aggiuntivi come i mirini, nelle tasche dei giubbotti tattici più di un caricatore.

Kiev è il centro decisionale di tutto. Qui la guerra non è responsabilità ma affare da gestire nel quotidiano. L’area nei dintorni del parlamento è spenta di notte, così come l’immenso palazzo presidenziale. La vita notturna prosegue e i locali sono pieni anche nella capitale, ma di giorno è chiaro che buona parte della massa di persone che si affretta per le strade ha qualcosa di importante da fare. A Leopoli viene chiesto di aiutare, a Kiev di dirigere lo sforzo.

Bucha, Irpin, Vasylkiv

Differenza esiziale nello stato d’animo delle due città è l’aver sentito il fiato dei russi sul collo. Posta quasi sotto assedio, la capitale ucraina ha visto la battaglia infuriare nei sobborghi. Servono meno di quaranta minuti di auto da piazza Maidan per arrivare a Vasylkiv, cittadina da quarantamila abitanti a Sud est di Kiev. Lungo la strada gli edifici distrutti si moltiplicano, ogni manciata di chilometri incontriamo un posto di blocco. Molti sono abbandonati. ma altri funzionano ancora. Le forze armate russe hanno attaccato la città con lo scopo di prendere possesso della base aerea di Vasylkiv il 26 febbraio e hanno bombardato più volte le infrastrutture e l’abitato.

Nei combattimenti intoro a Vasylkiv sono stati impiegati anche gli uomini della difesa territoriale – la Teroborona. Nelle fasi calde dell’invasione hanno svolto compiti praticamente sovrapponibili a quelli delle forze regolari. Parlo con alcuni di loro che risiedono ancora nei dintorni, mi raccontano delle settimane di scontri, mentre mi spiegano orgogliosi come hanno modificato delle granate perché potessero essere sganciate dai droni commerciali. A breve pubblicherò un’intervista sul ruolo della difesa territoriale e su quanto è stata importante nella battaglia per Kiev.

Vasylkiv, rifugio antiaereo; mi hanno spiegato che durante le prime fasi del conflitto centinaia di persone vivevano qui e alcune donne ci hanno partorito

I sobborghi ad est della capitale sono quelli che hanno sofferto di più nel corso dell’invasione. Nel triangolo tra Bucha, Hostomel e Borodianka si fatica a trovare un edificio che non porti le cicatrici dei bombardamenti. Le strade sono state riparate rapidamente, ma gli spostamenti sono ancora molto complicati perché le forze ucraine in ritirata hanno fatto saltare tutti i ponti della zona, per complicare la logistica russa. Nelle foreste che costeggiano le arterie di comunicazione ci sono ancora molti soldati ucraini. Mi chiedono di non fare foto e video, dato che i russi, occasionalmente, colpiscono ancora la zona con i missili da crociera – appena quattro giorni fa c’è stato un attacco con almeno sei missili a Liutizh, una ventina di km a nord della capitale – e le foto possono rivelare la concentrazione di materiale militare.

Le operazioni di rimozione di armi e mezzi distrutti sono andate molto rapidamente. Le guide indicano più volte i boschi per dirmi “qui c’è stata una battaglia”, “qui una colonna russa è stata distrutta”. Adesso a testimoniare questi scontri ci sono solo gli alberi abbattuti e gli edifici sventrati. Occasionalmente, nelle strade minori, sull’asfalto si legge ancora l’impatto delle bombe o dei missili. Alcune trincee sono state abbandonate, mentre altre ospitano ancora i soldati che perlustrano la zona.

Le città gemelle di Buča e Irpin sono diventate un simbolo del conflitto. Qui i russi hanno compiuto uno dei massacri più famosi di tutto il conflitto e secondo le autorità ucraine almeno 1300 civili sono stati uccisi nel mese di occupazione russa, molti dei quali a sangue freddo. “Credo che i russi fossero molto frustrati, ne morivano moltissimi ogni giorno, prendevano le strade e noi (della difesa territoriale) usavamo le armi anticarro dalle foreste ai lati, distruggendo il primo e l’ultimo mezzo”, mi spiegano.

C’è una calma strana in queste cittadine. Gli edifici arsi fanno da contorno alle persone che si ritrovano a cucinare negli spazi aperti, con dei fornelli comuni. Calcinacci e macerie sono stati rimossi e accatastati in maniera ordinata. Quando suona la sirena contro gli attacchi aerei sto camminando verso il centro di Irpin. Nessuno si scompone, la gente resta all’aperto e continua le proprie mansioni. Mi raccontano che l’allarme suona in continuazione e se le persone gli dessero sempre ascolto non ci sarebbe tempo per fare nulla. Un bilancio provvisorio è che gli abitanti dei sobborghi, al netto della preoccupazione per un inverno senza un tetto, stiano facendo di tutto per riacquisire una propria quotidianità “convenzionale”.

I trofei

Di ritorno a Kiev, prima che faccia buio, mi reco alla chiesa di San Michele. Un luogo simbolo. Perchè nella stessa piazza c’è il ministero degli Esteri e perché il monastero, distrutto dai comunisti negli anni ’30, è stato ricostruito dopo l’indipendenza del paese dall’Urss. Qui, durante gli scontri di Euromaidan (la piazza è a pochi minuti a piedi), la chiesa fu adibita a centro logistico e l’11 dicembre – giornata in cui la polizia di Janukovich cercò di sopprimere i moti filo-occidentali – le campane di San Michele suonarono incessantemente dall’una alle cinque del mattino per incoraggiare i manifestanti.

Carro armato T-72 distrutto, esposto presso il monastero di San Michele

Ai piedi della chiesa oggi gli ucraini espongono una serie di mezzi distrutti in questi cinque mesi alle forze armate russe (una galleria sul mio profilo instagram qui) e le persone vengono a farci le foto. Un paio di carri armati T-72, un semovente da 152mm, un missile inesploso e altri veicoli assortiti. Le forme contorte e color ruggine classico dei mezzi bruciati a contrastare con l’oro delle cupole di San Michele.

Da quando sono arrivato in Ucraina mi sono reso conto che la cultura del trofeo, antica quanto la guerra, è un qualcosa su cui le autorità hanno deciso di investire molto. Qualche settimana fa il ministro della Difesa Kuleba aveva anche proposto di realizzare un tour in cui venissero esposti i mezzi distrutti nelle diverse città europee, per portare oltreconfine i successi dei soldati ucraini. A Mosca hanno fatto lo stesso. Tutto il mondo è paese, specie in tempo di guerra.

In questi giorni continueremo ad aggiornarvi sulle nostre impressioni di come l’Ucraina vive il conflitto, con interviste e lettere dalle varie località. A breve vi parleremo da Kharkiv.

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Francesco Dalmazio Casini

Archeologo redento, giornalista, appassionato di geopolitica. Nato a Roma e ritornato dopo una breve parentesi milanese per dirigere Aliseo. Mi piace raccontare i conflitti, le interazioni e il fattore umano degli attori internazionali. Ogni tanto faccio delle puntate nel campo dell’energia, della politica e della logistica. In altre parole mi piace spiegare cosa c’è dietro a quello che succede nel mondo. Una missione: portare la cultura dell’informazione approfondita (e lenta) in Italia.

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