Inflazione, stagflazione, recessione, disruption della supply chain (catene fornitura), colli di bottiglia (bottlenecks). Questi sono alcuni dei termini che ritroviamo incessantemente sui media da qualche giorno, dopo quelli da dizionario di guerra con cui abbiamo familiarizzato nei primi tempi dell’invasione russa.
Dopo le riflessioni sulle conseguenze energetiche del conflitto, si fanno sempre più pressanti gli interrogativi sul futuro di alcune merci per cui sia l’Italia che l’UE dipendono in buona parte da Russia e l’Ucraina, che sono fra i maggiori esportatori mondiali.
Russia e Ucraina sono rispettivamente il primo e quarto produttore mondiale di grano: insieme sono responsabili del 29% del suo commercio globale. Oltre a questo, i due paesi totalizzano l’80% di esportazioni di olio di girasole (50% la sola Ucraina) e quasi il 20% di quelle di mais.
Qualche giorno fa il governo di Kiev ha deciso di vietare l’export di cereali (mais, grano e non solo) fino alla fine del 2022; questa misura aggrava una situazione resa già critica dalla chiusura dei porti sul Mar Nero che ha bloccato l’unica via di rifornimento da Russia e Ucraina verso l’Europa. Si stima che siano 50 mila le tonnellate di olio di girasole destinate all’Italia ferme nei porti ucraini, da cui, in condizioni normali, proviene il 63% di tutto quello importato nel nostro paese.
Per quanto riguarda il grano c’è un’importante distinzione da operare. In Italia non viene importato grano duro (per la pasta) dall’Ucraina, ma solo dalla Russia: 51 mila tonnellate, pari al 2,5% del totale. Per il grano tenero invece (per pane e dolci) i due paesi rappresentano circa il 5% dell’import nazionale: 122 mila tonnellate dall’Ucraina e 72 mila tonnellate dalla Russia nei primi dieci mesi del 2021.
Negli ultimi giorni anche l’Ungheria ha bloccato le proprie esportazioni cereali per tamponare la situazione interna, e fra questi rientra anche il mais, la cui importazione è coperta per il 20% proprio dall’Ucraina. Soluzione che potrebbe essere adottata da molti altri produttori. L’Argentina, ad esempio, ha già deciso di sospendere temporaneamente la vendita all’estero di soia e altri prodotti agricoli.
Nemmeno i semiconduttori non trovano pace. Dopo la pandemia ora la guerra. Putin insidia Odessa per impadronirsi di un polo fondamentale della catena mondiale di produzione di microchip.
Palladio, neon e C4F6 sono essenziali per la produzione di microchip e semiconduttori. Sebbene dalla Federazione russa arrivino rispettivamente il 40% ed il 90% della fornitura mondiale dei primi due, è nella città di Odessa che viene lavorato il 60% di tutto il neon utilizzato. Questo gas è fondamentale per il laser utilizzato nella litografia dei microchip.
A causa del conflitto è tutto bloccato nella città portuale e non si sa quando la catena potrà essere messa nuovamente in moto. Per mettere in guardia sui possibili risvolti del conflitto sul settore, Moody’s Analytics ha ricordato in un suo recente rapporto gli incrementi del 600% che caratterizzarono il prezzo del neon durante il conflitto di Crimea del 2014-2015.
A dispetto di questi scenari gli operatori non sembrano aver alzato di molto il livello di guardia. La SIA (Semiconductor Industry Association), che rappresenta il settore negli USA non sembra preoccupata grazie alla diversificazione nei fornitori di materiali e gas chiave.
Anzi, sembra proprio che il peggio possa verificarsi per la Russia, poiché il maggior produttore mondiale di semiconduttori TSMC (Taiwan Semiconductor Manufacturing Company) fermerà le esportazioni nella Federazione seguendo le indicazioni americane.
Sempre il settore tecnologico rischia di finire nell’occhio del ciclone a causa dello stop all’export di materie prime. L’Ucraina è nella top ten dei Paesi estrattori di buona parte dei metalli più importanti: Ferro (2,5% della produzione globale), manganese (3,6%), titanio (6,3%), gallio (2,9%), germanio (1%). A questi si aggiungono alcuni materiali non metallici ugualmente fondamentali: caolino (5,9% della produzione globale), zirconio (1,9%) e grafite (1,3%).
Lo spettro della crisi alimentare
Lungi dal ridursi a bega di confine alle periferie del Vecchio continente, il conflitto in Ucraina segnala in due sensi le criticità della globalizzazione. Ne insidia i presupposti ideali, fondati sulla razionalità del vivere in pace per tutelare il libero fluire delle merci (a questo dedicheremo una prossima uscita della newsletter). Soprattutto, mette a nudo la fragilità delle catene di approvvigionamento globali. Così l’invasione di un paese, che è cinquantacinquesimo per prodotto interno lordo e trentacinquesimo per consistenza demografica, rischia di far precipitare nel caos collettività a migliaia di chilometri di distanza.

Alcuni paesi dipendono fortemente dalle esportazioni alimentari di Ucraina e Russia, che da sole responsabili del commercio di circa il 12% delle calorie consumate a livello mondiale. Ai cereali si aggiungono anche alcuni prodotti come olio di girasole e fertilizzanti agricoli, che trovano nelle due nazioni belligeranti degli snodi produttivi insostituibili. Senza l’olio di girasole ucraino (75% del fabbisogno europeo) o si torna a quello inquinante di palma, oppure gli approvvigionamenti vanno ristrutturati da zero – tradotto: lacrime e sangue.
La Coldiretti, insieme al Parlamento europeo, evoca lo spettro della crisi alimentare anche in un Paese industrializzato come l’Italia. Se smettiamo di comprare mais dai russi (o se questi decidono di non vendercelo come rappresaglia per le sanzioni) e dai porti ucraini non torna ad arrivare il grano tenero, non solo andiamo incontro a perdite miliardarie ma restiamo a corto di mangimi per gli animali. Le riserve stoccate bastano per 20 giorni, dopo gli animali dovranno essere abbattuti.
Ma per i Paesi europei la crisi, quella vera, potrebbe prendere forma dall’altra parte del Mediterraneo. Il grano ucraino e russo non sfama solo milioni di europei, ma anche centinaia di milioni di persone in Medio Oriente e Africa. Alcuni Stati, come Marocco, Tunisia, Egitto e Turchia, dipendono direttamente dalle importazioni russo-ucraine. Lì senza i cereali dell’est europeo non si mangia. Una situazione esasperata dal periodo di siccità quasi senza precedenti che sta colpendo la regione nordafricana.
Inoltre – accanto alla mancanza effettiva di prodotti – anche molti Paesi i cui approvvigionamenti sono “in sicurezza” potrebbero fronteggiare crisi alimentari weimariane causate dall’aumento dei prezzi dei generi alimentari. Secondo i dati dell’International Grain Council, con l’eccezione del riso, tutti gli indici legati ai beni agricoli hanno visto un rialzo consistente su base annuale: grano (+60%), mais (+45%), soia (+28%), orzo (+58%).
Ricordiamo che le proteste che incendiarono le primavere arabe del 2011 partirono proprio da una serie di dimostrazioni contro l’aumento del prezzo del pane. La crisi che ci aspetta rischia di innescare qualcosa di molto peggiore. A dipendere dall’export di cibo di Russia e Ucraina sono infatti gli stessi Paesi di allora, la cui stabilità politica è rimasta precaria: dall’Egitto al Libano – dove i razionamenti sono già iniziati – passando per la Siria fino ad arrivare allo Yemen.
Tacciamo, invece, su cosa potrebbe accadere in regioni ancor più fragili dal punto di vista alimentare se il prezzo dei carboidrati dovesse continuare a crescere. Sahel e Africa subsahariana si trovano già sull’orlo del collasso; un peggioramento della situazione costringerebbe milioni, o decine di milioni, di persone nella condizione di migranti alimentari – con le conseguenze che possiamo immaginare per i Paesi europei.