Il controllo di Londra sulla regione si basava sulla differenza religiosa. La situazione è diversa dalla Scozia
Il fatidico giorno è arrivato: in Irlanda del Nord i cattolici sono più dei protestanti. I risultati del censimento del 2021 mostrano come il 45,7% degli abitanti della provincia britannica si definisca cattolico o di background cattolico, mentre la somma delle confessioni protestanti (principalmente presbiteriani e anglicani di rito irlandese) si ferma al 43,5%. La notizia è storica: la partizione dell’isola decisa nel 1921, con al sud lo Stato libero d’Irlanda e il nord britannico si basava proprio sul fatto che in Ulster i due terzi della popolazione fossero protestanti e per questo fedeli a Londra. Oggi sono in minoranza e, complice la Brexit, l’unificazione irlandese non è mai sembrata così vicina.
Scozia e Irlanda del Nord, simili ma diverse
La situazione dell’Irlanda del Nord è spesso paragonata a quella della Scozia: entrambe hanno infatti una parte consistente della popolazione che vorrebbe affrancarsi dal controllo di Londra. Le similitudini però si fermano qui. Quella scozzese è una questione interna al Regno Unito, senza attori esterni coinvolti. Nel 2014 il governo di David Cameron accettò di far svolgere a Edimburgo un referendum sull’indipendenza, che fu vinto dagli unionisti con il 55% dei voti.
La questione avrebbe potuto chiudersi lì per molti anni, ma due anni dopo un altro referendum, quello di Brexit, la riaccese. Se il Regno Unito nel suo complesso votò per lasciare l’Unione europea, il 63% degli scozzesi sarebbe rimasto con Bruxelles. Nel 2021 le elezioni locali hanno premiato ancora una volta lo Scottish National Party che vorrebbe un nuovo referendum per l’indipendenza, dal momento che le condizioni sono molto mutate rispetto al 2014. Referendum che dovrebbe però essere indetto da Londra, che oggi non ha alcuna intenzione di farlo.
Nonostante la simpatia che l’Unione europea e alcuni Stati membri nutrano per la causa scozzese, il coltello dalla parte del manico ce l’ha quindi il governo britannico. La situazione irlandese invece è diversa: innanzitutto l’Ulster non diverrebbe indipendente ma si unirebbe a un altro Stato già membro dell’Ue. Nel 1998 poi, i governi britannico e irlandese, oltre ai principali partiti nordirlandesi, firmarono l’ accordo di pace “del Venerdì Santo” che mise fine a 30 anni di violenze. Le parti si impegnarono a riconoscere l’Ulster come parte del Regno Unito, in cui vi sarebbe stato un sistema di spartizione di potere tra unionisti protestanti e cattolici repubblicani. Allo stesso tempo però, il governo di Londra si impegnava a convocare un referendum “in qualsiasi momento apparisse probabile che una maggioranza degli aventi diritto esprima la volontà che l’Ulster cessi di integrare il Regno Unito e divenga parte di un’Irlanda unita”. Prendendo per buono (e non è così) che i cattolici siano repubblicani e protestanti unionisti, esattamente la situazione che si è venuta a creare adesso.
L’Irlanda del Nord tra Londra e Dublino
Particolare non di poco conto, gli Stati Uniti hanno avuto un ruolo molto importante nella firma dell’Accordo del Venerdì Santo: Washington si è impegnata ad agevolare l’unificazione dell’Irlanda in caso di vittoria di un referendum a riguardo. A differenza di praticamente ogni altra questione, gli Usa sull’Ulster non sono dalla parte di Londra, anche perché moltissimi americani (tra cui il presidente Joe Biden) sono di origini irlandesi.
Inoltre, come nel caso scozzese, anche qui la Brexit ha esacerbato gli animi. La maggioranza pro-Ue è stata meno netta che in Scozia (55%), ma indicativa del fatto che molti protestanti non hanno appoggiato il Leave. Soprattutto, la questione irlandese è stata la vera spina nel fianco di Londra nei negoziati con Bruxelles. L’Accordo del Venerdì Santo prevede che il confine fra le due Irlande debba essere libero. Theresa May propose di far rimanere il Regno Unito nell’unione doganale europea: inaccettabile per i brexiteers, che la sostituirono con Boris Johnson. Johnson che, con una buona dose di spregiudicatezza, fece uscire la sola Gran Bretagna dall’unione doganale, lasciandovi invece dentro l’Ulster, i cui commerci con la madrepatria sono ora sottoposti a controlli di frontiera.
Un vero e proprio tradimento per gli unionisti nordirlandesi, il cui partito più forte e oltranzista DUP ha perso quest’anno la maggioranza al parlamento di Belfast, superato dai repubblicani di Sinn Fein. Quest’ultimo è l’ex braccio politico dell’IRA e secondo le regole stabilite nel 1998 dovrebbe guidare il governo locale, con un vice-premier del DUP, che però si rifiuta di condividere il potere con loro. Il risultato è un blocco del governo e possibili nuove elezioni.
L’Irlanda del Nord però non è più quella di qualche decennio fa. Sono sempre più forti i partiti non confessionali e neutrali rispetto alla riunificazione, come l’Alliance che alle elezioni del 2022 ha raccolto il 13,5% dei consensi. Sono numerosi i cattolici che sono favorevoli a rimanere nel Regno Unito per motivi economici: Londra passa a Belfast circa 9,5 miliardi di sterline all’anno e porta in dote uno dei migliori servizi sanitari al mondo.
Dall’altra parte l’Irlanda è uno dei Paesi più poveri dell’Ue e l’unificazione potrebbe essere costosa anche per i cittadini di Dublino. Esaurita la protezione britannica per l'”Irlanda protestante”, la fedeltà dell’Ulster al Regno Unito e la strategia di Londra per rimanere in Irlanda passa oggi per motivi prettamente economici.