La guerra e la Storia possono insegnare molto, è vero, ma, nonostante ciò, gli insegnamenti non piovono dal cielo, vanno cercati. È molto semplice osservare gli eventi dalla propria sponda, già convinti della correttezza della propria causa e, sulla base di ciò, cercare parallelismi storici che la possano servire. Ma in questo caso non si sta studiando, non si sta realmente osservando, non si sta capendo, si stanno semplicemente imbracciando le armi.
L’avvertimento dello storico scozzese Hew Strachan è che «la Storia non è solo un deposito da cui possiamo scegliere verità durature. Harold Nicolson, l’ambasciatore che aveva rappresentato la Corona britannica durante la Conferenza di pace di Parigi del 1919, si era spinto anche oltre, sostenendo che «le persone che studiano il passato con la convinzione che si comporterebbero automaticamente meglio nel presente adottano una pericolosa abitudine mentale».
Citare esempi tratti dalla Storia per illustrare come qualcosa abbia funzionato, o fallito, in passato non può servire a trarre lezioni dirette o raccomandazioni per il presente e il futuro; ciò è utile semmai per approfondire la comprensione di un fenomeno, pur sempre da contestualizzare. La Storia è lunga e complicata, utile potenzialmente a trovare un esempio per dimostrare qualsiasi cosa.
E questo perché? Perché la Storia è una narrazione e non è mai neutrale, essendo qualcosa che ha profondamente a che fare con la “memoria collettiva”, a testimonianza che la questione di cosa possa essere condiviso e cosa non lo sia, è piuttosto spinosa. Su un piano ideale esisterà mai una pace che possa essere condivisa, o essa sarà sempre frutto di un compromesso capace di frustrare la memoria di entrambe le parti?
Le guerre della memoria
Al di là degli aspetti di mera convenienza pratica, due popoli in conflitto ideologico che partono da assunti, presupposti culturali, psicologie differenti, potranno mai trovare un terreno ideale comune o ci saranno necessariamente sempre dei nodi impossibili da sciogliere? Russi e Ucraini, Serbi e Bosniaci, Israeliani e Palestinesi (ma gli esempi si sprecano) saranno mai in grafo di dire: «avevate ragione voi», «ci siamo sbagliati», «siamo morti per qualcosa, ma in fondo non aveva così importanza»…?
Non accadrà, per il semplice fatto che la memoria non si può condividere, perché quello che ciascuno ha conosciuto e attraversato resta irriducibilmente qualcosa che non può essere compreso da chi non lo ha vissuto. L’empatia può esistere, ma non sempre, e ciò non dipende dalla nostra attitudine, né dal fatto di essere più o meno buoni e ben disposti nei confronti del prossimo. I ricordi sono condivisibili solo con coloro i quali a tali ricordi hanno partecipato.
Accade tuttavia che la colpa, la responsabilità e la vittimizzazione scorrano di generazione in generazione; che la coscienza collettiva dei popoli si perpetri nelle menti e nei cuori dei posteri i quali, anche se non hanno vissuto direttamente i tempi e gli eventi, sono destinati a esserne gli alfieri, per non offendere i sacrifici dei propri genitori e i drammi dei loro nonni.
È così che tante esperienze personali si propagano nella coscienza dei popoli, che il tempo alimenta nuovi malcontenti e nuove guerre, nonostante la convinzione che la “fine della Storia” fosse ormai giunta e che dopo “l’ultima guerra” una pace perpetua avrebbe dominato l’umanità e la sua ritrovata saggezza.
Memoria e giustizia
Oggi emerge chiaramente la difficoltà di barcamenarsi all’interno della tensione esistente tra memoria e giustizia, problema reso ancora più evidente dal fatto che gli attori coinvolti sono intere comunità, ognuna col proprio vissuto, ognuna con le proprie ambizioni e i propri rancori: come decidere chi ha ragione e chi ha torto? Come stabilire quale popolazione sia realmente giunta prima su un territorio rispetto a un’altra?
Tralasciando la tendenza a dimenticare troppo spesso che la fenomenologia della gestione del potere nella Storia sia solo in minima parte costituita dall’idea di Stato nazionale connotato etnicamente (come emblematicamente esemplificato dall’Europa westfaliana), l’esperienza non mente quando, attraverso le parole di Hannah Arendt, insegna che «ci sono eventi talmente drammatici che sopravanzano qualsiasi nostra capacità di giudizio», e che forse è poco utile pensare di poter sancire la conclusione delle guerre attraverso processi in cui si stabiliscono in senso assoluto le vittime e carnefici.
Vi sono eventi che non hanno precedenti e che lasciano sprovvisti della scala necessaria per poterli analizzare e per poter stabilire una pena adeguata, proprio perché ogni guerra è unica, così come ogni intima ragione che ha spinto le persone a imbracciare le armi, come ogni vendetta, come ogni testimonianza, come ogni dolore, come ogni vittoria e ogni sconfitta.
La memoria dunque, specialmente quella collettiva, è uno strumento politico, è sempre una costruzione ed è sempre e necessariamente parziale e selettiva, e questo spiega perché toccare questa memoria può riaprire delle ferite, e perché a oggi l’ambizione di costruire una “memoria di tutti” (pur essendo essa stessa frutto di una visione parziale e particolare delle vicende storiche) ha sostanzialmente fallito.
Si ricorda qualcosa attribuendogli un valore, non tanto per farlo, e così a un certo punto si rischia di ritrovarsi con una memoria che non è esattamente quella originale, ma che è sempre e comunque degna, poiché rafforza la coscienza e rinsalda dei legami, senza i quali le società si liquefanno, se non addirittura si sgretolano.
Washington, ad esempio, è una città piena di memoriali, proprio perché essa è la cattedrale in cui si perpetua il senso collettivo americano, e i memoriali stessi sono indicativi anche di una selezione politica degli eventi da ricordare (ad esempio, non c’è un memoriale dedicato ai caduti della Prima guerra mondiale a Washington). La memoria è fonte di conflitti che si basano su chi è incluso e chi viene escluso da questi elenchi memoriali; non è un caso che negli elenchi delle vittime uccise per mano mafiosa, ad esempio, siano distinti coloro che sono stati uccisi come innocenti e coloro che lo sono stati, invece, per un regolamento di conti.
La Storia non è dunque riportare gli eventi in coda uno all’altro, quella è cronaca; essa vuole delineare un percorso che sia esplicativo; essa contribuisce a costruire l’identità dei popoli perché si sedimenta, e se questo costituisce uno degli aspetti pericolosi del suo discorso, è anche ciò che le attribuisce un valore e che legittima le azioni di chi riconosce questo valore. Fare Storia significa necessariamente selezionare, anche perché ogni storico ha una sua sensibilità, una sua attitudine, un suo interesse, una sua emotività, una sua biografia e quindi una sua memoria. La politica, poi, imbraccia questa memoria e ne fa ciò che vuole, a seconda di quale sia lo scopo prefissato.
La pace e la memoria
Queste ineliminabili componenti di parzialità e soggettività (ma anche relatività) della memoria contribuiscono a spiegare come la presenza dell’altro sul proprio territorio è sovente molto difficile e particolarmente indigesta, e dialogare con la memoria dell’altro può risultare altrettanto doloroso e inaccettabile. Dire che bisogna fare la pace non la produce in automatico, o almeno ciò non può avvenire finché non viene riconosciuta la tragicità che accompagna questa pace. Questa è stata la grande ubriacatura del nostro tempo, di cui alcuni ancora manifestano i postumi.
La pace è possibile solo dopo averne riconosciuto l’enorme difficoltà, e tale difficoltà può essere proprio una guerra della quale non è possibile individuare vittime e carnefici, perché in guerra gli attori che ne prendono parte possono essere, più o meno consapevolmente e a seconda del punto di vista, entrambe le cose allo stesso tempo.
Appare così necessario lavorare non tanto sul concetto di verità in senso assoluto, ma sulla franchezza dei sentimenti che hanno mosso le parti nelle loro reciproche offese e difese. Spesso alla domanda del perché sia stato compiuto un delitto emerge una sorta di strabismo in colui che l’ha commesso, il quale si trova a dover decidere se fornire una risposta viziata dall’insegnamento tratto dall’esperienza, o una risposta collegata al movente emotivo originario che lo ha spinto all’azione. Ebbene, la risposta a questo perché può essere assurda, terribile, traumatica; ma forse è quella che bisogna ascoltare.
La presenza di una “memoria unica” può produrre i suoi mostri e i suoi fantasmi, poiché uno dei fattori tipici dell’esperienza umana è che ciò che è accaduto non è eliminabile: si può essere ex detenuti, ma non ex assassini, e alle vittime non si potrà mai a dire: «Passerà», perché non avverrà. Tuttavia, per quanto drammatica, questa impronta che l’uomo lascia sul suolo della Storia costituisce sia il suo più profondo dramma, che la sua più grande opportunità.
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