Anno nuovo, vecchio Orbán. Il primo ministro ungherese continua con la sua spregiudicata politica dei “due piedi in due scarpe”: membro della Nato e dell’Ue ma vicino, ideologicamente e retoricamente, alla Russia di Putin. Con l’Occidente tira la corda al massimo ma sta ben attento a non spezzarla. L’obiettivo è sempre lo stesso: ottenere i maggiori benefici possibili per sé e per l’Ungheria.
La visita ungherese in Russia
Sin dall’inizio della guerra in Ucraina, Orbán ha mantenuto una posizione ambigua, accusando l’Occidente di essere colpevole almeno tanto quanto la Russia dello scoppio del conflitto. Al centro della retorica del primo ministro nazionalista ci sono in particolare le sanzioni dell’Unione europea contro Mosca, giudicate più nocive che utili.
Ciononostante, e sebbene queste ultime si adottino all’unanimità, l’Ungheria non le ha mai bloccate. Orbán si è sempre accontentato di cambiarle leggermente e di ottenere deroghe (anche corpose) per il suo Paese. Una di queste è la possibilità per Budapest di continuare a importare gas e petrolio russi.
In virtù di ciò, il ministro degli Esteri Péter Szijjártó si è recato a Mosca per firmare degli accordi con il vicepremier russo Alexander Novak, con cui l’Ungheria si assicura la possibilità di comprare più gas rispetto a quanto previsto dal contratto stipulato tra i due Paesi e a un prezzo che non superi un tetto stabilito.
«Fino a che la fornitura di energia sarà una questione pratica e non politica o ideologica, piaccia o non piaccia la cooperazione con la Russia rimarrà cruciale per la nostra sicurezza energetica», ha dichiarato Szijjártó nella conferenza stampa congiunta. L’accoglienza e l’atmosfera non sembravano quelle che si hanno con un “Paese ostile”, come Mosca definisce ufficialmente Budapest in quanto aderente alle sanzioni.
Le ambiguità con l’Occidente
A Kiev non hanno preso bene la visita del ministro ungherese. Il consigliere economico di Zelensky, Oleg Ustenko, ha commentato: «Se avete visto il video del soldato ucraino decapitato dai russi, sappiate che gli ungheresi stanno pagando per quel coltello». Non è l’unico sgambetto di Budapest nei confronti di Kiev degli ultimi giorni: il governo di Orbán ha proibito l’import di prodotti agricoli ucraini nel Paese fino al 30 giugno per tutelare gli interessi degli agricoltori locali, minacciati dal più economico frumento di Kiev.
Un po’ a sorpresa la stessa misura è stata presa anche dalla Polonia, il più convinto alleato di Zelensky nell’Unione europea. Il leader del partito di governo di Varsavia Jarosław Kaczyński ha confermato che «la Polonia rimane, senza il minimo cambiamento, amica e alleata dell’Ucraina». Per la prima volta da un po’ di tempo dunque, i due ex alleati di ferro Orbán e Kaczyński si sono di nuovo ritrovati sulla stessa barca.
L’atteggiamento dell’Ungheria sta infastidendo in maniera crescente gli Stati Uniti. Budapest infatti è membro della Nato, oltre che dell’Unione europea. Pochi giorni fa Washington ha sanzionato la International Investment Bank, banca con sede a Budapest anche se detenuta in maggioranza da russi vicini a Putin e ai servizi segreti. Preso atto della decisione, Orbán ha ritirato gli ungheresi dalle quote della banca.
Insomma, nonostante una “crescente retorica anti-americana”, come era scritto nei documenti top secret trafugati dal Pentagono, Budapest mantiene comunque una sufficiente collaborazione con Washington. Anzi: secondo gli stessi documenti, alcune armi occidentali dirette in Ucraina passerebbero proprio dal territorio ungherese, sebbene ufficialmente il governo lo proibisca. Nessun membro dell’esecutivo di Budapest ha smentito queste rivelazioni.
Budapest tra Ankara e Bruxelles
Ultimo ma non meno importante motivo di tensione tra l’Ungheria e l’Occidente è la mancata ratifica di Budapest all’ingresso della Svezia nella Nato. In questo caso però non è solo il classico “tirare la corda” per ottenere qualcosa cui Orbán ci ha abituato (che pure c’è: Stoccolma è presidente di turno della Ue). C’entra la crescente vicinanza tra l’Ungheria e la Turchia, l’altro Paese che sta bloccando l’ingresso della Svezia nell’Alleanza Atlantica.
Le motivazioni ufficiali sono diverse: se per Ankara pesano i rifugiati (terroristi secondo Erdogan) curdi accolti e il recente rogo del Corano da parte di un estremista di destra “tollerato” a Stoccolma, per Budapest sono le critiche del Paese nordico allo stato della democrazia in Ungheria.
Più in generale però, a differenza degli altri Paesi Nato che vedono la Turchia un po’ come un “paria” all’interno dell’alleanza, per Orbán Ankara è un Paese amico e un modello. L’Ungheria è osservatore dell’ Organizzazione degli Stati turchi e ha spesso speso parole di comprensione per la politica di Erdogan. In questo caso, oltre alla convenienza economica e politica, pesa anche l’ideologia del premier ungherese. Orbán parla spesso di declino dell’Occidente e vede l’emergente potenza turca e la sua “democrazia illiberale” come un modello positivo alternativo.
Ad ogni modo, come avvenuto anche con l’adesione alla Nato della Finlandia, difficilmente l’opposizione di Budapest all’ingresso della Svezia sarà un ostacolo insuperabile. Una volta convinta la Turchia, Orbán troverà il tempo di far ratificare l’adesione di Stoccolma al suo Parlamento. Tirare la corda va bene, ma spezzarla no.
Foto in evidenza: “Victor Orban during the debate on the political situation in Hungary” by European Parliament is licensed under CC BY-NC-ND 2.0.