Gli insuccessi riportati dalle truppe di Mosca nella guerra d’Ucraina sono boccate di ossigeno per quella narrativa che da mesi profetizza la fine incipiente del regime putiniano. Incapaci di raccontarci di essere in guerra con i russi e con la Russia, ci figuriamo in guerra con il solo Vladimir Vladimirovich.
Ora folle, ora malato, il presidente russo si avvicina – spiegano tanti commentatori occidentali – all’ora fatale in cui dai corridoi dei Cremlino si leverà un colpo di mano che lo bandirà dalla cabina di comando. Variante pop è invece quella che vede l’ex operativo del Kgb destituito da un moto popolare spontaneo, un Maidan in salsa russa che in molti si affrettano ad annunciare di fronte ad ogni manifestazione di dissenso.
Il pensiero velleitario intorno ai regime change è pratica di salvaguardia mentale cara all’osservatore che siede dalla parte giusta della rinata cortina di ferro. Quanto percepisce intollerabile, maligno, coincide necessariamente con ciò che reputa condannato a rapida fine ingloriosa. Dall’Iran alla Corea del Nord, passando per la Cina e arrivando in terra russa, profetizziamo la caduta delle autocrazie non appena si intravedono timidi segnali di insofferenza, per quanto spettacolari possano essere nella loro dimensione estetica.
Inutile precisare che nella maggior parte dei casi non accada nulla. Alle volte, tuttavia, tali fazioni scontente del potere aprono crepe che il regime è incapace di comporre, inaugurandone il declino. Quanto è lontana la Russia di Vladimir Putin da questo scenario?
La scommessa ucraina e il supporto a Putin
Non è un mistero che il presidente russo abbia legato le sue sorti – specie quelle della sua memoria presso i posteri – all’esito finale dell’operazione militare speciale. Per paradosso, di tanti uomini che hanno seduto sul seggio del Cremlino, Vladimir Putin è il primo che rischia di passare alla storia come quello che ha perduto l’Ucraina, heimat ancestrale dello Stato russo, storica sorella minore della Russia attraverso le sue varie incarnazioni. Il “salvataggio” in extremis della Crimea non basta, come non basterà la neutralità imposta con le armi ai riottosi georgiani o il salvataggio dello sbocco mediterraneo con l’intervento in Siria, per dipingere un quadro roseo del ventennio putiniano ai posteri.
Allo stesso modo, il boom economico ottenuto prima del 2014 rischia di finire nel dimenticatoio di fronte alla scure delle sanzioni occidentali che minacciano di riportare l’economia russa indietro di dieci anni. Il worst case scenario vede la Russia bandita tanto dai mercati finanziari e dalle tecnologie di frontiera quanto dal suo estero vicino – con possibile deragliamento dall’orbita moscovita di Kazakistan e Georgia.
Troppo per una collettività che ancora nel 2020, secondo il Centro Levada, individuava nell’Urss il miglior momento della storia russa e in Josip Stalin il personaggio “più grande di tutti i tempi”. Il motivo? Per il 52% degli intervistati la risposta è il senso di appartenenza a una superpotenza, a dimostrazione del fatto che il metro di giudizio dei russi resta ancorato alle vetuste categorie di gloria e potenza.
Ad aprile del 2022, un mese e mezzo dopo l’invasione dell’Ucraina, il gradimento di Vladimir Putin arriva all’83%, con meno di un quinto dei russi che disapprova le decisioni del presidente. Un balzo di 11 punti rispetto all’ultima rilevazione condotta dal Levada a febbraio. Il tasso di approvazione passa indenne anche i mesi estivi, gli stessi in cui diventa chiaro che dai campi di battaglia difficilmente arriverà una rapida vittoria. Il trend si ravvisa anche per la fiducia nel governo e nella stessa decisione di invadere l’Ucraina – a marzo il 51% dei russi parla “orgoglio” per l’operazione militare speciale – nonostante Vladimir Putin resti sempre più popolare delle sue politiche, secondo un paradosso ormai consolidato.
È solo con l’annuncio della mobilitazione parziale dei riservisti, il 21 settembre, che le rilevazioni del Centro Levada vedono un netto calo della popolarità di Putin, con l’indice di approvazione che scende da 83% a 77%. Un calo che in ogni caso non lo riporta ai livelli pre-guerra (69% a gennaio, 71% a febbraio). Si tratta di numeri coerenti con altre mosse impopolari promosse da Putin in 23 anni di potere, come l’aumento dell’età di pensionamento nel 2018 (-15%) o l’imposizione delle restrizioni in seguito alla pandemia da coronavirus.
Le file chilometriche dei cittadini russi accalcati alle frontiere, in fuga dalla chiamata alle armi, sono immagini potentissime, allo stesso modo delle proteste plateali contro l’arruolamento che a Ust-Iimsk sono degenerate in strage. Di certo sono macigni in una guerra delle immagini globale in cui Mosca sta stendando sin dal 24 febbraio. Afferrarne la rilevanza numerica, tuttavia, è molto complicato. Se è vero che incrociando i dati forniti dal Fsb per il primo semestre dell’anno e quelli che arrivano da Kazakistan e Georgia si potrebbe pensare a un esodo definitivo di centinaia di migliaia di russi, è difficile capire quale sorte di questi russi una volta entrati nel paese.
Il Kazakistan ha confermato che circa 200mila cittadini russi sono arrivati nel paese dall’annuncio della mobilitazione, ma altri 147mila hanno lasciato il paese. Per quanto riguarda la Georgia, rispetto ai 70mila ingressi si registrano circa 45mila uscite. In Finlandia, a fronte di 60mila ingressi, si registrano 36mila uscite. Numeri che in ogni caso sono lontani, al netto dei ritorni, dai 700mila citati da alcuni report
Parlando di un periodo di tempo ristretto, non è ancora possibile fornire una stima effettiva di quanti di questi russi non abbiano intenzione di tornare in patria. Di certo la mobilitazione ha avuto un suo peso nello spingere fuori dalla Russia molte persone. Lo conferma, ad esempio, l’aumento del 30% di ingressi in Europa nella settimana 19-25 settembre rispetto a quella precedente e la moltiplicazione esponenziale dei voli verso alcune popolari località dell’estero vicino russo nel primo weekend dopo l’annuncio della chiamata alle armi (fino +600% nel caso di quelli verso Tiblisi).
Nell’attesa di un dato puntuale, che possa illuminare sulla reale portata dell’esodo innescato dalla mobilitazione, credo sia interessante precisare che il calo della popolarità di Putin è contemporaneo anche alle sconfitte più gravi subite dalle forze russe. Sia la controffensiva di Kharkiv, che ha praticamente espulso i russi dall’oblast, che i guadagni territoriali di Kiev nella regione di Kherson si collocano infatti tra la rilevazione di agosto (83% di popolarità) e quella di settembre, in cui il consenso del leader viene ridimensionato. In una qualche misura è possibile che il calo del supporto sia legato almeno in parte non alla paura di finire sotto le armi, ma a quella di perdere la guerra.
Due alternative ai lati opposti dello spettro, che rimandano a inclinazioni umane completamente antitetiche. L’una bellicista, delusa perché le forze armate non hanno dato buona prova di sé, l’altra pacifista, impaurita che il conflitto dilaghi nelle loro vite. Molti canali filorussi, nei giorni dell’offensiva di Kharkiv, riportavano un messaggio indirizzato ai “militaristi”, invitandoli ad avere fiducia nel proprio paese, noto per essersi rialzato spesso in seguito a rovesci bellici: “bisogna ricordare che quella di oggi è Narva e non Tsushima”.
Sempre a fine settembre la percentuale dei russi convinta che il paese stia andando nella direzione corretta si attesta comunque al 60%. Aliquota al ribasso rispetto a quella dei primi mesi di guerra, che tuttavia si attesta a distanze siderali rispetto a quella che potrebbe ispirare una rivolta di popolo. Propaganda, nostalgie di grandezza e percepita ostilità dell’occidente nei confronti dei civili (si pensi alle proposte di negare i visti), stringono il popolo russo intorno alla bandiera e difficilmente lasciano presagire che la via per il “dopo Putin” passi per una rivoluzione colorata.
I colpi di mano nella Russia sovietica
Resta l’ipotesi di un colpo di palazzo. Scrivendo su Foreign Affairs Sergey Radchenko scandaglia la turbolenta storia sovietica per individuare un possibile precedente. Cita il caso di Lavrenty Beria, il “boia di Stalin”, che alla morte del dittatore sovietico fu arrestato e condannato dopo un breve intermezzo da vice primo ministro in seguito a un complotto ordito da Khrushchev e dal primo ministro Malenkov. Khrushchev sarà a sua vola deposto nel 1964 grazie alle macchinazioni di Brezhnev. Immacabile citare poi quel Putsch di agosto che nel ’91 vide i carri armati russi sparare contro il palazzo del Soviet supremo di Russia (“la Casa Bianca) – fallito grazie alla mobilitazione popolare.
La disamina degli intrighi dell’Urss è certamente utile per capire con che rapidità alleanze e tradimenti si possano susseguire nell’anticamera di un’autocrazia: protetti che attentano ai maestri, nemici giurati che si coalizzano per destituire il vecchio vertice spartendosi il potere, apparati e militari che offrono la loro lealtà al migliore offerente. È probabile che le figure che popolavano la camarilla sovietica fossero molto simili, come formazione e cornice umana, sogni e aspirazioni, agli uomini dell’entourage di Vladimir Putin, ma le analogie si fermano qui.
Dalla morte di Stalin l’Urss, pur incarnando tutti i principi di uno Stato autoritario, restò a lungo un arcipelago di centri di potere, dalle burocrazie al partito passando per i servizi di sicurezza, caratterizzato dalla compresenza di figure di eguale caratura, spesso in lotta per il potere. Difficilmente queste condizioni possono essere incontrate nella Russia di Putin.
In 23 anni il presidente russo ha fatto tutto quanto fosse in suo potere per svuotare del potere il corridoio, remando forsennatamente contro la logica schmittiana che situa nell’anticamera di burocrati, consiglieri e adulatori le coordinate del potere. L’Ufficio esecutivo presidenziale, il Consiglio di Sicurezza e le tre agenzie maggiori che da questi dipendono (Gru, Svr e Fsb) sono sì centri di potere che potrebbero fare da incubatrice per i congiurati, ma sono contraddistinti da alcune caratteristiche fondamentali: essere popolati da amici e fedelissimi del presidente, riportare direttamente a lui e competere per il peso relativo nella cornice della burocrazia russa.
Nessuno dei “siloviki”, gli uomini forti del cerchio magico putiniano, ha mai mostrato particolare insofferenza nei confronti delle decisioni del leader. È probabile che tra di loro si celi l’uomo che succederà a Vladimir Putin quando (prima o poi) questo rimetterà il potere. Al momento, con la decisione che sembra scontata di correre per un nuovo mandato nel 2024, appare improbabile che qualcuno possa sostituirvisi in breve tempo. Passare in rassegna i papabili nomi per un dopo Putin è oggi un esercizio utile a capire quale sarebbe il volto della Russia in caso accadesse l’impensabile.
Gli uomini del dopo Putin
Si va dal segretario del Consiglio di Sicurezza, già numero uno del Fsb, Nikolai Patrushev all’ex presidente Dmitry Medvedev. Il secondo, in particolare, dall’inizio dell’invasione russa ha dismesso la figura del moderato dialogatore che aveva interpretato durante il suo periodo da presidente per vestire i panni del falco – una mossa che in molto hanno interpretato come dettata dalla volontà di accreditarsi come uomo forte presso l’opinione pubblica. Patrushev ha dalla sua una sponda importante, un figlio di 44 anni, Dmitry anche lui, che nel 2018 è stato nominato ministro dell’Agricoltura. Data l’età di Patrushev (71 anni) è possibile che piuttosto che prendere il potere l’ex capo del servizio federale lavorerebbe per l’ascesa del suo protetto.
C’è poi l’intramontabile capo del Fsb Alexsandr Bortnikov, longa mano di Putin in alcune delle controversie più famose del suo lungo regno, a partire dall’avvelenamento di Alexander Litvinienko – anche lui ha un figlio importante, Denis, che oggi è il vicedirettore della seconda banca più importante di Russia, Vtb. Ci sono poi alcune figure tecniche, poco divisive, che in caso di un incidente che incapacitasse o eliminasse Putin potrebbero fare da momentanei traghettatori verso lidi sconosciuti, a partire dal primo ministro Mikhail Mishustin e dall’attuale sindaco di Mosca Sergei Sobyanin.
Appare poco probabile che a reclamare il potere sia l’attuale ministro della Difesa Sergei Shoigu, fino a qualche tempo fa uno dei candidati più papabili. La prestazione non proprio brillante delle forze russe in Ucraina gli è fruttata ampie critiche da parte dell’ala oltranzista dell’entourage di Putin, a partire dal leader ceceno Ramzan Kadyrov. Amico di lunga data di Putin e ministro dal 1991, Shoigu è alla Difesa dal 2012, pur essendo privo di esperienza militare (nemmeno la leva).
Con le sconfitte dell’ultimo dai diversi angoli del cerchio d’oro di Putin sono arrivare fortissime critiche verso l’establishment della Difesa. In seguito allo sfondamento ucraino a Kherson, il capo dell’amministrazione regionale filorussa, Kirill Sremousov, ha candidamente suggerito al ministro di suicidarsi. Che la stella di Shoigu si avvii al tramonto si legge anche nelle indiscrezioni che lo vogliono a breve rimpiazzato da un tecnico. Di particolare rilevanza è uno di questi “rumours” riportato dal canale Telegram Gray Zone, direttamente collegato al Gruppo Wagner – e di riflesso all’oligarca Prigohzin, che con Shoigu non ha mai avuto un rapporto idilliaco.
Secondo diversi commentatori proprio i “miliziani” della corte di Putin, il “cuoco del Cremlino” Prigozhin e il capo carismatico della Cecenia Ramzan Kadyrov, potrebbero stare manovrando per sostituire a Shoigu l’ex guardia del corpo del presidente, Alexei Dyumin. Entrato nelle grazie del numero uno dopo averlo salvato dall’attacco di un orso, Dyumin è governatore dell’oblast di Tula e nel 2014 svolse un ruolo chiave nel coordinare le operazioni per occupare la Crimea.
Sempre altre due dei bodyguard di Putin sono a volte stati indicati come papabili successori, Alexander Kurenkov e Viktor Zolotov. Zolotov è l’attuale comandante della Rosgvardiya, nonché un membro del Consiglio di sicurezza della Federazione, mentre Kurenkov è il ministro per le situazioni di emergenza. Sono entrambi considerati fedelissimi di Putin e provengono dai ranghi dell’esercito. Il primo tuttavia è apparso in pubblico molto poco (per non dire che sia sparito) dall’inizio del conflitto in Ucraina.
Per quel che riguarda “i tecnocrati” dell’amministrazione putiniana, da Sergei Lavrov a Dmitry Peskov passando per il generale Valery Gerasimov, mai come oggi appare improbabile che sia uno di loro ad ereditare il timone in caso un imprevisto dovesse accadere al presidente. La sensazione generale è che alla corte di Putin si stia ridisegnando il perimetro dei rapporti di forza, a tutto vantaggio dell’ala oltranzista degli uomini del regime.
Putin e gli anticorpi contro i golpe
Da precisare, infine, che il signore del Cremlino dispone di un’ampia schiera di anticorpi per rivalersi su eventuali congiurati – o per agire preventivamente, evitando che gli insofferenti diventino tali. La capacità del regime russo di muoversi contro gli oppositori per vie extragiudiziarie è cosa nota, con una decina di casi eclatanti variamente distribuiti tra oppositori politici, giornalisti e imprenditori scomodi. Nello stesso senso potrebbero essere intese quelle morti misteriose che hanno funestato alcuni degli oligarchi più famosi di Russia – l’ultimo, Ivan Pechorin, è stato trovato morto a Vladivostok il 12 settembre.
Senza dover arrivare a una risoluzione “cinetica” della controversia, Vladimir Putin ha anche a disposizione una serie di armi informali, di certo “più legittime” agli occhi del pubblico, per tenere sotto scacco i suoi siloviki. I casi di Mikhail Khodorkovsky e Vladimir Yevtushenkov sono eloquenti in questo senso.
Con un patrimonio di 16 miliardi di dollari il primo era l’uomo più ricco di Russia nel 2003, alla guida del colosso petrolifero Yukos. Una fortuna costruita durante l’era Eltsin, che valse a poco quando, dopo aver deciso di sostenere candidati avversi a Putin e aver promosso attività sospette come scuole di giornalismo e forum di dialogo sulla democrazia, una serie di accuse lo videro incriminato per frode ed evasione fiscale: resterà in carcere fino al 2013, quando il presidente russo deciderà di graziarlo.
Il secondo nel 2014 sarà invece espropriato della sua compagnia petrolifera, la Bashneft, con l’accusa di riciclaggio di denaro – anche in questo caso (le accuse sono state dismesse nel 2016) si pensa che furono i finanziamenti all’opposizione a determinare la caduta di Yevtushenkov.
Gli oligarchi – e molti dei papabili successori di Putin possono rientrare a pieno titolo in questa categoria – sono vulnerabili per due ordini di motivi. Da una parte l’abilità dei servizi di sicurezza di costruire prove false e orientare il potere giudiziario secondo i fini del Cremlino. Dall’altra c’è il fatto che molti di questi hanno un passato criminale e tutt’ora si macchiano di illeciti finanziari tollerati dal regime in cambio della loro fedeltà. Qualora questa venisse meno, tuttavia, le informazioni sapientemente accumulate dal Fsb sarebbero immediatamente tirate fuori dai cassetti e utilizzate per costruire inchieste ad orologeria.
Ultimo e più radicale dei globuli bianchi del regime è la moltiplicazione dei gruppi armati su cui il presidente potrebbe contare come extrema ratio se a tentare il colpo di mano fossero i militari. Oltre alla Rosgvardiya, la guardia nazionale che risponde direttamente al presidente, possiamo citare i famigerati Kadyrovtsy, formalmente inquadrati in quest’ultima ma di fatto un esercito personale del leader ceceno, e l’ormai noto Gruppo Wagner – che sul campo di battaglia dell’Ucraina sta dimostrando di non aver nulla da invidiare alle truppe regolari in termini di efficienza bellica.
Gioie e dolori di una democrazia che nel corso del mandato putiniano è stata definita prima “sovrana” e poi “amministrata”, una cabina costruita negli attorno al timoniere perché la verticale del potere resti linea perfettamente perpendicolare tra decisore supremo e esecutori.
Come sentenziava uno sconsolato Khodorkovsky in un’intervista rilasciata ad Euronews: “I ricchi in Russia non hanno mai avuto un vero e proprio potere”. Parole che fanno il paio con quanto riassumeva al Financial Times un anonimo funzionario del Cremlino nei primi giorni dell’invasione dell’Ucraina: “gli oligarchi intelligenti capiscono come funziona, mentre quelli stupidi non sono più oligarchi”.
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