fbpx
a

Spieghiamo a cosa serve la geopolitica

a

Scopri Il ritorno delle guerre

L’ultimo numero della rivista di Aliseo, dedicato allo studio dei conflitti contemporanei. 14 analisi per capire come sono cambiate le guerre e perchè ci toccano da vicino

Salario minimo, una non-soluzione per il mercato del lavoro italiano
Perchè il salario minimo di cui si parla nella direttiva europea di giugno è una distrazione dai veri problemi di retribuzione in Italia
salario minimo

Lo scorso sette giugno è stato raggiunto un accordo sulla proposta di direttiva Ue per “un equo salario minimo” tra Commissione, Parlamento e Consiglio europei. Ciò non vuol dire che da qui a qualche mese assisteremo all’introduzione di un salario minimo europeo in Italia, anzi. L’Unione europea non introdurrà un livello di riferimento per tutti i paesi, né tantomeno interverrà nel processo decisionale di coloro che vorranno stabilirlo.

La bozza del documento (la versione definitiva dovrebbe arrivare a settembre) prevede che nei paesi con un salario minimo, questo sia ad un livello “adeguato”, da stabilire ed aggiornare attraverso un sistema che comprenda dei criteri specifici (potere d’acquisto secondo il costo della vita, la distribuzione e la crescita dei salari, e la produttività nazionale).

Il testo include anche dei riferimenti, non prescrittivi, per la determinazione di un salario minimo che sono il 60% del salario mediano lordo ed il 50% del salario medio lordo. Ciò che viene raccomandato, inoltre, è un aggiornamento del livello minimo attraverso un dialogo delle parti sociali e delle istituzioni preposte per questo fine.

L’altro tema trattato è quello della contrattazione collettiva, e in particolare l’invito al raggiungimento, almeno, della soglia dell’80% di lavoratori tutelati per tutti quei paesi che hanno livelli inferiori. Questo perché si è rilevato che nei paesi con coperture più elevate vi è una quota inferiore di lavoratori a basso reddito. La Commissione non imporrà la definizione di un salario minimo legale nei paesi in cui i minimi sono stabiliti nei contratti collettivi.

Da un lato quindi vi è un intervento rivolto a quegli stati membri che già prevedono un salario minimo (per i quali l’innalzamento al 60% del salario mediano lordo equivarrebbe ad un incremento sostanziale rispetto ai loro livelli attuali) e dall’altro vi è l’intento di tutelare il sistema di contrattazione collettiva, visti i benefici ravvisati anche da Bruxelles. Vi è dunque una coesistenza più che una mutua esclusione.

L’Italia vuole avere tutto

L’Italia, data la natura della contrattazione salariale, sembrerebbe essere destinataria della parte di contenuto riguardante la contrattazione collettiva. Non a caso il nostro paese è uno di quelli con la più alta copertura, oltre l’80%, insieme a Danimarca, Finlandia e Svezia (ogni tanto veniamo accostati ai virtuosi scandinavi), di cui proprio la Commissione evidenzia i tratti positivi affermando che «i paesi caratterizzati da un’elevata copertura della contrattazione collettiva tendono ad avere una percentuale inferiore di lavoratori a basso salario, a salari minimi più elevati rispetto al salario mediano, minori disuguaglianze salariali e salari più elevati».

Da queste parole non sembra che il nostro paese debba recuperare un gap, ma che anzi, abbia un modello di contrattazione salariale ben visto dall’Ue, che sicuramente può e deve essere migliorato, ma che non ha bisogno di essere stravolto con l’introduzione di un salario minimo che sia totalmente fuori parametro o che non abbia una vera incidenza in termini di numero di lavoratori che ne beneficerebbero.

Alcuni partiti sembrano aver recepito solo quanto fa loro elettoralmente più comodo. Il M5s vede nella direttiva la materializzazione di ciò che invoca da anni (c’è solo da temere di fronte ad una loro proposta visti i risultati del Rdc), mentre il PD la vuole utilizzare come slancio per le sue proposte che poco hanno a che fare con la direttiva Ue e men che meno con la realtà.

Il ministro del Lavoro Orlando propone di rinnovare i contratti di determinati settori considerando il TEC (trattamento economico complessivo) dei contratti più rappresentativi come salario minimo. Ma la Commissione europea ha indicato di fissare una cifra di trattamento minimo non oltre il 60% della mediana e il 50% della media delle retribuzioni per contrastare il lavoro povero, non di alzare le retribuzioni totali come avverrebbe con la proposta di Orlando.

Per avere uno quadro della situazione salariale in Italia è molto utile un e-book realizzato da Adapt intitolato Una legge sul salario minimo per l’Italia che offre delle anche indicazioni concrete per contrastare il fenomeno dei woorking poors.

Il resoconto mostra che di 992 contratti collettivi nazionali di lavoro (Ccnl) depositati, i soli 162 firmati da Cgil, Cisl e Uil coprono oltre 12.5 milioni di lavoratori dipendenti del settore privato, il 97% del totale, lasciando così fuori 800mila lavoratori potenziali, che sono meno dei milioni rimproverati a questi contratti. Ed è proprio su questi che oggi bisognerebbe intervenire in maniera mirata attraverso dei seri sforzi di verifica e di intervento.

Il testo poi ipotizza l’adozione di un salario minimo legale di nove euro orari lordi, come proposto da Nunzia Catalfo, ex Ministro del lavoro, i beneficiari del quale sarebbero: 290mila lavoratori coperti da Ccnl con una retribuzione oraria minore, 685mila operatori del settore domestico e 950mila addetti all’agricoltura. La misura inciderebbe sul 10% dei lavoratori totali ma si verrebbero a creare importanti contraddizioni.

Prima di tutto aumenterebbe il rischio di sommersione nei due settori sopracitati dove il costo del lavoro è rilevante ed il controllo più difficile, andando ad incrementare il lavoro irregolare (ad oggi 39,7% nel settore agricolo e 58,6% nel settore domestico) la cui retribuzione media è la metà di quella regolare, o addirittura il lavoro in nero sul quale il salario minimo non avrebbe alcun effetto: chi era fuorilegge prima continuerà ad esserlo.

L’altra contraddizione si porrebbe in caso di contrattazione dei salari di figure industriali che grazie ai Ccnl hanno valori orari ben superiori ai nove euro, poiché le imprese sarebbero indotte ad abbandonare i contratti nazionali di categoria e ad adottare il nuovo standard legale, con il risultato di avere delle paghe inferiori. Ad oggi nei 30 maggiori contratti industriali comprendenti 342 qualifiche con salari minimi contrattuali, solo 12 sono sotto i nove euro (15 nel 2018, a testimonianza che la contrattazione è in grado di incidere).

Per evitare questo scenario i sindacati vogliono mantenere la via contrattuale. Praticamente insieme alla politica vogliono scegliere tutto.

Infine, l’ultima e forse più divertente è che imponendo per legge un salario legale di nove euro, verrebbe ridicolizzata tutta la difesa del Rdc portata avanti da Pd e M5s nel quale si considera come retribuzione congrua da accettare, anche quando full-time, quella di 5,5 euro lordi orari. Altro che vincolo di realtà, qui non si rispetta nemmeno la coerenza fra due proposte dello stesso schieramento.

Tanto clamore per distogliere dai veri problemi

Come i dati mostrano, le basse retribuzioni in alcuni settori non sono imputabili né alla frammentazione dei CCNL, visto che 162 su 992 regolano il 97% dei lavoratori, né (se non per alcuni settori e figure specifici) ai livelli fissati dalla contrattazione collettiva.

Il primo vero problema va identificato nell’elevata diffusione del lavoro irregolare che lascia i lavoratori privi di tutela, e a questo si aggiungono la frammentarietà dei rapporti, il part-time involontario e tutte quelle forme di lavoro occasionale o senza contratto (es. tirocini extracurriculari) che per loro natura sono escluse dalla contrattazione collettiva. Il nodo non sono i contratti collettivi ma la loro mancata o non corretta applicazione.

Ora verrebbe da chiedersi quale sia l’origine di tali disfunzioni. La risposta è rappresentata dai veri problemi del mercato del lavoro italiano da cui si cerca di distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica identificando nel salario minimo la panacea di tutti i mali. Il primo fra questi è la dimensione delle nostre imprese.

Oltre il 95% del nostro tessuto imprenditoriale è costituito da micro e piccole imprese che fondamentalmente possono sfuggire al controllo delle autorità con molta più facilità rispetto ad una grande azienda, e quindi sono quelle che più di tutte ricorrono a rapporti di lavoro irregolari o in nero che poi infiammano il dibattito pubblico per la loro iniquità.

Un tema inevitabilmente legato alle dimensioni è quello dell’efficienza, che si innesta proprio su quello del controllo appena citato. Più precisamente, per una micro/piccola azienda affetta da inefficienze croniche e che si trova ad operare in un settore a basso valore aggiunto come quello agricolo o turistico, l’unico modo per sopravvivere è proprio quello di rifugiarsi nell’illegalità dei rapporti di lavoro per comprimere il più possibile i costi; e questa pratica è rafforzata dalla consapevolezza di poter sfuggire ai controlli molto più facilmente rispetto da un’azienda di grandi dimensioni.

È innegabile che anche le medie/grandi aziende provino a comprimere il costo del lavoro, non con rapporti irregolari o in nero, ma con quelle forme contrattuali come tirocini e stage che sono fattispecie escluse dall’applicazione della contrattazione collettiva. Per queste realtà vale meno il discorso dell’inefficienza legata alle dimensioni, ma valgono invece altre due criticità fondamentali che affliggono il mercato del lavoro del nostro paese: la produttività e il cuneo fiscale.

La scarsa crescita della prima e la pesantezza del secondo per sostenere il sistema previdenziale sono alla base della regressione dei nostri salari al di sotto dei livelli degli anni ‘90 (-2,9%) e della forte propensione delle aziende ad assumere con contratti che le sottraggano dagli oneri di quelli collettivi.

Il salario medio annuale, in Italia, dal 1990 al 2020 | Elaborazione openpolis su dati Ocse

Dal 1995 al 2020 la crescita della produttività del lavoro è stata oltre sette volte inferiore rispetto a quella dei paesi Ue (0,2% contro l’1,5%) e contraddistinta da una forte asimmetria negli andamenti fra i vari settori. Positivi per manifattura, finanza e grande distribuzione ma negativi per Pa, e stagnanti per Ict, servizi professionali alle imprese e servizi professionali alle imprese. Purtroppo, produttività e salari non possono essere slegati e quindi non si può sperare in un aumento di questi ultimi solo grazie a qualche editto. E questo vale per tutti i livelli di retribuzione.

Se a questo problema si aggiunge quello del cuneo fiscale il quadro è completo. Nel 2021, quello italiano si è attestato al quinto posto fra i più alti nell’area Ocse, con un valore pari al 46,5%, di cui oltre 31 punti percentuali rappresentano i contributi previdenziali.

Taxing Wages (Ocse) 2021 | Ocse

Non a caso la spesa pensionistica nel 2019 rappresentava il 16,8% del Pil italiano ed è una delle quote più elevate in Europa. Se non si avrà la volontà politica di attuare una vera riforma che sgravi i lavoratori dagli oneri previdenziali non ci sarà verso di aspettarsi per magia un innalzamento dei salari.

La soluzione non è l’editto del salario minimo. Stante questo sistema di contrattazione salariali, le uniche cose che veramente possono incidere sul livello delle retribuzioni (anche quelle più basse) sono delle riforme che intervengano a favore dei livelli di produttività e della crescita dimensionale delle imprese (vedi fisco), e una riforma del sistema pensionistico che dia respiro ai lavoratori. Non c’è salario lordo orario deciso a tavolino da qualsivoglia ministro o segretario di sindacato che possa veramente sostituirsi alle riforme strutturali profonde di cui abbiamo realmente bisogno.

La newsletter di Aliseo

Ogni domenica sulla tua mail, un’analisi di geopolitica e le principali notizie sulla politica estera italiana: iscriviti e ricevi in regalo un eBook di Aliseo

La newsletter di Aliseo

Ogni domenica sulla tua mail, un’analisi di geopolitica e le principali notizie sulla politica estera italiana: iscriviti e ricevi in regalo un eBook di Aliseo

Enrico Ceci

Enrico Ceci

Ciao, sono Enrico e sono capo redattore della sezione economia per Aliseo. Classe '95, laureato in economia e in studi europei. Nei miei articoli, legati principalmente a temi economici ed energetici, cerco di offrire un punto di vista diverso, sempre e solo attraverso il supporto dei dati. Seguendo lo spirito di Aliseo, il mio intento è arricchire tutti coloro che dedicheranno un momento del loro tempo alla lettura dei miei contributi.

Dello stesso autore

📩 La newsletter di Aliseo

Ogni settimana, sulla tua mail, un’analisi di geopolitica e le principali notizie sull’Italia

In evidenza

Aliseo sui social