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L’ultimo numero della rivista di Aliseo, dedicato allo studio dei conflitti contemporanei. 14 analisi per capire come sono cambiate le guerre e perchè ci toccano da vicino

La Cina verso l’Antartide: la via per il Polo sud passa dal Pacifico
La regione antartica è ricca di risorse e riveste un ruolo non di poco conto nell'agenda del Dragone

Un paese che ambisce allo status di grande potenza, ripetendo il famoso mantra “If you are not at the table, you will be on the menù“, deve sedersi, gioco forza, al maggior numero possibile di tavoli di trattative. Più si è presenti e più si è influenti e più si è influenti maggiori saranno i vantaggi che si potranno ottenere non solo in quella particolare partita ma anche in altre apparentemente sconnesse da quelle cui sono puntati i riflettori. Questa logica è quella che porta le attenzioni della Cina in Antartide, continente spesso “dimenticato” dalla competizione globale

Perché la Cina va in Antartide

L’Antartide, date le premesse, risulta dunque essere un vero e proprio campo di prova. Tutti gli Stati più importanti sono seduti intorno al continente ghiacciato ma, fino a qualche tempo addietro, mancava un attore non di poco conto: la Repubblica Popolare Cinese. Gli attori che avanzano rivendicazioni territoriali sono (ufficialmente) l’Argentina, l’Australia, il Cile, la Francia, la Norvegia, la Nuova Zelanda e il Regno Unito, tutte nazioni che vantano motivazioni di carattere storico relativo alla scoperta e all’occupazione o di carattere puramente geografico, dovuto alla continuità territoriale. La Cina, che di questi strumenti non dispone, deve agire strategicamente e districarsi tra i vari trattati internazionali.

La placca australiana, comprendente Australia-Nuova Guinea-Nuova Zelanda, e in particolare il suo margine divergente a sud, segna il confine con la placca antartica. Si tratta di una porzione tettonica dunque costituisce una sorta di “autostrada” che collega i questi tre paesi con l’Antartide. Il “gioco antartico” è un’arena in continua evoluzione, in cui gli attori coinvolti, agendo formalmente in nome della cooperazione scientifica, si spartiscono il territorio e le future prospettive strategiche da esso derivanti.

A tal proposito, il primo Libro Bianco sull’Antartide del governo cinese, pubblicato nel 2017, segnala come i tre obiettivi primari di Pechino tra i ghiacci antartici saranno “capire, proteggere, sfruttare” uno scenario che viene descritto come “un nuovo spazio di ambiente globale che è di grande importanza per i processi dello sviluppo umano” e che, anche se nessuna potenza potrà mai controllare de iure, in prospettiva bisognerà sempre tenere monitorato.

Del resto, come Annibal Lecter, le grandi (im)potenze come la Cina “don’t see people, they see materials” e l’Antartide possiede una grandissima riserva di fitoplancton, ampiamente utilizzato nell’allevamento di pesci e dalle industrie cosmetiche e acqua dolce, insieme a giacimenti minerari di uranio, ferro, carbone, e nichel e ingenti risorse petrolifere.

La via del Pacifico

“La leadership di Pechino – sostiene Anne-Marie Brady, autrice di China as a Polar Great Power – vede nell’espansione della presenza polare della Prc un modo per dimostrare il suo crescente peso globale”. Pechino, infatti, non nasconde più l’ambizione di voler diventare protagonista nella regione antartica: dal 1984 ha finanziato oltre 34 spedizioni e possiede cinque stazioni di ricerca. Fin dal 2013, d’altra parte, la Repubblica popolare cinese ha definito le regioni polari come le “nuove frontiere strategiche” del Paese.

Alla luce di questi dati, non deve sorprendere la recente politica cinese di investimenti nel sud e sud est del Pacifico; in particolare sono stati rilevati alti livelli di indebitamento accumulati da diversi paesi insulari nei confronti della Cina e ciò ha allertato attori prossimi come il Giappone, l’Australia e la Nuova Zelanda. L’ex ministro degli Esteri giapponese Taro Kono affrontò già la questione a margine di un incontro a Wellington tenutosi nel 2018 con il suo omologo neozelandese di allora, Winston Peters.

Negli ultimi anni diversi osservatori hanno lanciato l’allarme per il crescente indebitamento di piccole nazioni insulari come Tonga e Vanuatu, per non parlare delle recenti vicende che hanno visto un significativo avvicinamento delle Isole Salomone a Pechino. Peters affermò che la Nuova Zelanda condivideva la preoccupazione del Giappone riguardo la capacità di quei paesi di onorare i loro debiti: “Osserviamo la situazione con grande serietà. Ci chiediamo cosa significherebbe per noi se queste nazioni cedessero proprio gli asset di valore che avevano tentato di sviluppare, e li affidassero al controllo di un altro paese”. Un riferimento nemmeno troppo velato alla Cina. Come risposta a questo avvicinamento da parte del Dragone, l’Australia annunciò lo stanziamento di un fondo di 1,5 miliardi di dollari per il finanziamento di infrastrutture proprio nella regione del Pacifico.

La Cina in Nuova Zelanda

I timori riguardano anche l’ingresso di Pechino in Australia e in Nuova Zelanda. Il governo canadese, con un rapporto rilasciato dalla Canadian Security Intelligence Service, allertò nel 2018 la Nuova Zelanda circa l’influenza, ad ogni livello della società, del governo cinese e come questa stesse raggiungendo un livello indicato come “critico”. Il rapporto sosteneva che gli affari neozelandesi, le élite politiche e intellettuali fossero stati presi di mira dal Partito Comunista Cinese e questi affari, che sono legati a compagnie, università e centri di ricerca venivano stati utilizzati per “influenzare attività e fornire l’accesso a tecnologie militari, segreti commerciali e altre informazioni strategiche”.

Stando al rapporto, “sforzi enormi” sono stati fatti per portare i media in lingua cinese e comunità cinesi sotto il controllo del Partito, e sono state fatte donazioni politiche: “La Nuova Zelanda rappresenta un caso di studio sulla volontà di Pechino di utilizzare legami economici per interferire nella vita politica di un paese”. L’indagine metteva in guardia sul fatto che proprio gli Stati più piccoli erano quelli “particolarmente vulnerabili” all’influenza cinese.

La Nuova Zelanda appare alla Cina come uno snodo importantissimo sia per vantaggi di carattere economico, ma anche per puntare dritto verso l’Antartide. Peter Mattis, membro della commissione US-China Economic and Security Review, affermando che il Partito Laburista della premier Jacinda Ardern avesse accettato dei fondi da parte di donatori legati al Partito Comunista Cinese, disse: “Penso che a un certo punto i Five Eyes (alleanza d’intelligence comprendente Canada, USA, Australia, Nuova Zelanda e Regno Unito) o i Four Eyes, avranno la necessità di discutere sul fatto che la Nuova Zelanda debba o meno continuare a farne parte”.

Al fine di contenere questo “espansionismo” da parte del Dragone, sono stati presi dei provvedimenti riguardanti la cyber security non solo da parte della Nuova Zelanda e dell’Australia, ma anche da altri paesi, e soprattutto da parte dei membri dell’alleanza dei Five Eyes. Il colosso cinese Huawei venne radiato dalle sperimentazioni negli Usa, in Canada, Nuova Zelanda e Australia per quanto riguardava la tecnologia 5G.

I governi temono che le infrastrutture e i dispositivi marchiati Huawei possano nascondere delle backdoor o stratagemmi simili utili per l’infiltrazione dell’It di Pechino. Ciò che intimorisce l’azienda di Shenzen oggi come allora è il fatto che Australia e Nuova Zelanda facciano parte proprio dell’alleanza dei cinque occhi. Un eventuale “passaparola” potrebbe mettere fine al mercato Huawei, in vista di future sperimentazioni.

Il governo australiano decise di mettere al bando la fornitura da parte della Cina della tecnologia 5G di rete mobile, per ragioni di sicurezza nazionale. Nello specifico limitò fortemente l’azione di compagnie cinesi come la Zte considerate troppo vicine al governo di Pechino dalla rete mobile 5G, dopo che le agenzie di intelligence avevano concluso che non avrebbero potuto garantire la sicurezza della rete. Si trattava di aziende “probabilmente soggette a direttive da un governo straniero, potenzialmente in conflitto con la legge australiana”.

La Huawei, come riportato da The Guardian, rispose alle accuse senza mezzi termini “smentendo categoricamente di aver mai fornito, o di aver mai ricevuto richieste in tal senso, informazioni dei clienti a qualsiasi governo od organizzazione. Si tratta di accuse senza fondamento e fatte senza alcuna evidenza […]. Vorremmo che il dibattito pubblico sul ruolo di Huawei nel fornire tecnologia all’Australia sia bilanciato e basato sulla trasparenza dei fatti, invece che su congetture vaghe e non verificate”.

Negli ultimi tempi la Cina è corsa ai ripari senza però interrompere la sua politica di potenza all’estero, come dimostrano i fatti delle Isole Salomone. I risultati delle elezioni in Australia, che hanno visto la nomina a premier del laburista Anthony Albanese, e le elezioni in Nuova Zelanda previste per il 2023 potrebbero cambiare leggermente le carte in tavola soprattutto nei rapporti verso Pechino, sapendo comunque di non dover infastidire gli alleati, Stati Uniti in particolare.

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Mario Spoto

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